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Politicamente correttissimo
I diritti del corpo
Luigi Manconi
“Benefattor degli uomini,/ riparator dei mali,/ in pochi giorni io sgombero/ io spazzo gli spedali,/ e la salute
a vendere/ per tutto il mondo io vo./ Compratela, compratela,/ per poco io ve la do” (Gaetano Donizzetti,
L’elisir d’amore, Atto primo – Scena quinta).
E’ stato Eugenio Scalfari, mentre Giuliano Ferrara assentiva, a evocare il dottor Dulcamara, “medico
ambulante”, a proposito della figura di Silvio Berlusconi. Tutto ciò dopo la proiezione di “Silvio Forever”
(La7, 8 settembre) nel corso di un dibattito diretto da Enrico Mentana, tra Paolo Mieli e gli stessi Scalfari e
Ferrara. Al di là delle valutazioni più strettamente politiche, colpiva l’aspra controversia, che vedeva Scalfari
e Mieli contrapposti al direttore del Foglio, a proposito del carattere di Silvio Berlusconi. Ferrara, per
definire la personalità del premier, ha fatto ricorso due volte al termine “giocoso” e tre al termine “mite”,
suscitando le contestazioni dei suoi interlocutori. Troppo semplice provare a mettere d’accordo tutti
affermando che, come in ogni essere umano, anche in Silvio Berlusconi, convivono tratti psicologici e
inclinazioni umorali e morali, differenti e fin opposti. Troppo semplice e persino superfluo perché, ad
esempio, io che ho sperimentato una volta ( e una volta sola: credo nel 1995) quella “mitezza”, devo dire
che del suo opposto (l’inesorabilità, secondo il Dizionario dei sinonimi e dei contrari, di Zanichelli) leggo
nelle cronache pubbliche e private da oltre un quindicennio. E me ne sento sopraffatto, almeno come
cittadino. Ma non è questo in realtà il punto. Perché mai Ferrara e alcuni pochi altri del centrodestra
apprezzano così tanto questa immagine di “dottore enciclopedico”capace di “portenti infiniti”, fino a
enfatizzarla ed esaltarla? In tal modo, io credo, non si fa un buon servizio a Berlusconi. Al contrario, lo si
rimpicciolisce e lo si rende parodia di se stesso. Emerge, qui, una singolare tendenza, propria di una cultura
di destra, minoritaria ma tutt’ora vivace, che considera morale solo l’amoralità; che fa del disincanto una
precettistica edificante; e che rischia di ridurre il cinismo, da atteggiamento filosofico ed esistenziale, a stile
di vita, quando non a postura e a civetteria. Una simile impostazione sa che il declino del berlusconismo è
in corso ed è irreversibile e ha deciso che l’esito preferibile sia una sorta di rutilante uscita di scena tra
cachinni e sghignazzi (di ballerine ce ne sono già quanto basta). Qui davvero Ferrara è fedelissimo
interprete del berlusconismo come ontologia. Sembra cazzeggio ed è, invece, un discorso sull’essere.
Ovvero su quale sia l’autentico fondamento del berlusconismo e il pensiero di sé che intende lasciare ai
posteri. Silvio Berlusconi ( e Ferrara con lui) teme meno il ridicolo di quanto tema il tragico. Ritiene che la
dimensione tragica possa occultare malamente tutta l’indecenza del melodramma e l’osceno della
sofferenza rappresentata in pubblico. E che l’ammissione della debolezza e della senescenza, del
tradimento e della solitudine sia più disdicevole del rincorrere la fantasia erotica di Nicole Minetti vestita da
suora. C’è una qualche ragione nel paventare un simile rischio, ma la soluzione prospettata è ancora
peggiore. Il “ giocoso” eclissarsi tra fanfare e pennacchi, ma anche il “giocoso” congedo tra tributi e
picchetti d’onore,non mi sembrano proprio all’altezza di quanto Berlusconi ha rappresentato, nel bene e
nel male, nella scena pubblica e nella vita nazionale degli ultimi due decenni. Quel “giocoso” allude a una
futilità svagata e smagata più da entertainer che da uomo di governo: e anche il più severo avversario
commetterebbe un colossale errore se considerasse, di Berlusconi, solo o prevalentemente l’attitudine e
l’attività da showman. Quel “giocoso” non è consentito dalla drammaticità dello scenario in cui Berlusconi
oggi opera (e continuerà a operare per qualche tempo) né dalla complessità del suo ruolo nella vicenda
politica nazionale. Per capirci, i guai che ha combinato ( o, per gli apologeti, i suoi “infiniti portenti”) non
sono superabili con un semplice cambio di governo e non sono liquidabili con un: abbiamo scherzato. Ed è
difficile credere che- giunti a questo passaggio della congiuntura economica e sociale- stia per calare
davanti ai nostri occhi il provvidenziale striscione: siete su scherzi a parte. Insomma, perché negare a Silvio
Berlusconi la pienezza della sua figura e della sua avventura ? E perché –nel momento della sconfitta e della
possibile rovina- negargli l’onore e il piacere , della dimensione (anche) tragica? Chi gli vuole tanto male da
ridurlo alla misura di un Davide Mengacci,con appena una diversa coloritura di capelli?
il Foglio 27 settembre 2011
Politicamente correttissimo
I diritti del corpo
Luigi Manconi
“Benefattor degli uomini,/ riparator dei mali,/ in pochi giorni io sgombero/ io spazzo gli spedali,/ e la salute
a vendere/ per tutto il mondo io vo./ Compratela, compratela,/ per poco io ve la do” (Gaetano Donizzetti,
L’elisir d’amore, Atto primo – Scena quinta).

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Clandestina è la politica
Luigi Manconi   Valentina Brinis
"il passo di chi è partito per non ritornare
e si guarda i piedi e la strada bianca
la strada e i piedi che tanto il resto manca"
Gianmaria Testa
***
Se un giornale democratico, progressista e – addirittura! – “ di sinistra” titola: “caccia ai clandestini”, qualcosa di terribile sta accadendo, e forse è già accaduto. Consideriamo quel titolo. Certo, potrebbe giustificarsi con la volontà di descrivere semplicemente un fatto, connotandolo di una qualche riprovazione morale: ma temo che il risultato sia esattamente l’opposto. Se, infatti, si fosse scritto, che so, “violenze” o “aggressioni”, già sarebbe stato diverso perché in quelle due parole viene evidenziato il ruolo dei responsabili e, di conseguenza, quello delle vittime. “Caccia” è già diverso. Intanto perché evoca una dimensione ferina e, dunque, ulteriormente mortificante il bersaglio di quella attività venatoria; e, poi, perché introduce un elemento esotico o comunque talmente anomalo da risultare quasi irreale. Posso sbagliarmi, ma questa è la sensazione: tanto più se l’obiettivo sono “i clandestini”. È un termine contro il quale mi batto vanamente da tempo e che, fino a qualche anno fa, era totalmente  infondato sotto il profilo giuridico dal momento che non esisteva nel nostro ordinamento il reato di clandestinità. Ora, anche questa ulteriore lesione è stata inferta al nostro sistema di diritti e garanzie e, dunque, il ricorso a quel termine ha – sotto l’aspetto penale – una qualche plausibilità. Ma nella sua dimensione sociale si tratta di un termine esclusivamente di natura denigratoria e discriminatoria. Sono forse “clandestini” quei bambini e donne e uomini che, sotto i fari delle nostre polizie e sotto i riflettori delle nostre televisioni sbarcano a Lampedusa, col volto e il corpo esposti alla più crudele visibilità? Il termine clandestino evoca immediatamente, più che un generico pericolo, un’insidiosa minaccia portata attraverso la cospirazione e la trama occulta. Clandestini, nel senso comune e nel linguaggio pubblico, sono oggi i fuggiaschi e i richiedenti asilo, coloro ai quali è scaduto il permesso di soggiorno, quanti hanno perso il posto di lavoro e i minori che compiono diciotto anni e risultano privi dei requisiti di legge. Una parte di questi si trovano da tempo a Lampedusa. Ed è bastata una scintilla per incendiare l’isola. È bastato far valere un punto del recente accordo Italia-Tunisia (rimpatri diretti verso il paese di origine) perché si scatenasse la rivolta. Una rivolta motivata, da un lato dall’abbandono e dalla disperazione e, dall’altro dal fallimento del sistema di accoglienza lampedusano. Un apparato, quest’ultimo, affidato interamente alla spontaneità e alla filantropia degli abitanti dell’isola che, armati di “buona volontà” e di “santa pazienza”, in questi mesi di continui sbarchi non si sono mai voltati dall’altra parte (salvo, evidentemente, poche eccezioni). La loro è stata l’attesa estenuante e ostinata di un intervento decisivo da parte del Governo italiano in grado di far fronte a quella “emergenza umanitaria” ( così a febbraio era stata definita la situazione). E in questi mesi qualcosa in effetti è stato fatto: rilascio dei permessi di soggiorno temporanei (23mila), distribuzione sul territorio italiano delle persone sbarcate, accordo Italia-Tunisia. Ognuno di questi provvedimenti si è però rivelato o incompleto o inefficace. Per dirne una, i permessi temporanei rilasciati fino al mese di aprile non hanno garantito alcun tipo di presenza legale sul territorio oltre la loro breve durata. Bisogna poi ricordare il fine di quella misura: consentire ai migranti (principalmente tunisini) di muoversi nell’area Shengen, cosa in realtà resa improba da molti fattori e, in particolare, dagli ostacoli posti dagli altri stati. Inoltre il sistema di accoglienza gestito dal Governo italiano è apparso subito inutilmente macchinoso: basti pensare alla spericolata serie di acronimi attribuiti ai differenti centri di accoglienza (Cie, Cara, Cda, Cai, Ciet…e perché no Cippa Lippa?). Se l’idea iniziale era quella di rispondere con strutture diverse a diverse condizioni, oggi risulta palese che le differenze si limitano alle sigle: le condizioni materiali e psicologiche delle persone trattenute sono generalmente disperate a prescindere dal nome del luogo. Infine gli accordi Italia-Tunisia dell’aprile scorso, appena rinnovati, sembrano rivelarsi efficaci solo sotto il profilo della repressione. Ma perfino in questo ricorso alla mano pesante, emerge la cialtroneria di una politica dell’immigrazione grossolana e, insieme, impotente. Lo Stato che garantisce la sicurezza (guardandosi bene dal garantirla anche ai migranti) è plasticamente rappresentato dal delirio verbale e cinetico di quel sindaco che mostra – più pateticamente che minacciosamente – la sua mazza da baseball.
l’Unità 23 settembre 2011
Luigi Manconi   Valentina Brinis

"il passo di chi è partito per non ritornare
e si guarda i piedi e la strada bianca
la strada e i piedi che tanto il resto manca"
Gianmaria Testa
***
Se un giornale democratico, progressista e – addirittura! – “ di sinistra” titola: “caccia ai clandestini”, qualcosa di terribile sta accadendo, e forse è già accaduto. Consideriamo quel titolo.

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Carceri, scandalo ignorato
Luigi Manconi
Grazie all’ostinatissima mobilitazione dei Radicali e allo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella si è arrivati finalmente, ieri, alla convocazione di una seduta straordinaria del Senato sul tema del sistema della giustizia e dell’esecuzione della pena. Questione cruciale, come si vedrà, ma lo scarso, o nullo, interesse mostrato finora dai mass media, l’esile presenza di senatori nell’aula e, soprattutto, il contenuto dell’intervento del ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, adombrano il rischio di una discussione fine a se stessa, incapace di assumere impegni precisi e adottare politiche concrete e destinata a risolversi in un omaggio rituale a un dramma che assume, via via, i contorni di una emergenza umanitaria. Eppure tutto ciò non era, e forse tuttora non è inevitabile. Poco meno di due mesi fa si era svolto, ancora al Senato un importante convegno promosso dagli stessi Radicali. Qui era accaduto qualcosa di effettivamente nuovo, grazie in particolare a Giorgio Napolitano. Dalla più alta autorità dello Stato provengono parole sempre connotate, anche sotto il profilo più strettamente semantico, da moderazione e prudenza. Una simile cifra, che è di cultura e di  stile, qualifica il discorso pubblico dell’attuale Capo dello Stato. Il quale, tuttavia, sa che la  moderazione non è incompatibile con lo sdegno e che, quando necessario, la moderazione esige lo sdegno. In quella occasione Napolitano ha fatto ricorso a un vocabolario appunto sdegnato, in cui echeggiava una certa ira consapevole, a proposito dei luoghi di esecuzione della pena nel nostro paese. E così ha definito “estremo orrore” la situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), dove sono internati gli imputati di reato considerati “incapaci di intendere e di volere”. E ha qualificato come “eufemistico” il pudibondo termine (“sovraffollamento”) col quale si segnala che in spazi destinati ad accogliere 45mila individui, vengono stipati a forza (e come, se no) oltre 67mila esseri umani.  Di fronte a ciò, Napolitano ha fatto ricorso a un termine inappellabile: “imbarbarimento”, richiamando tutti ad affrontare quella che considera una “prepotente urgenza” e una “emergenza assillante”. L’importanza di quel richiamo e la riprovazione morale che evoca sono tanto maggiori in quanto fanno seguito, come si è detto, alla più circostanziata critica del sistema della pena mai esposta da una così alta autorità. E in quanto – ecco il punto - quel richiamo non ha ottenuto, a tutt’oggi, alcun concreto risultato. E questo sembra dimostrare inequivocabilmente che quella prepotente urgenza non è affatto condivisa dalla gran parte del ceto politico e del sistema dell’informazione. La seduta del Senato di ieri ne è stata una conferma. In particolare, il Guardasigilli, ha svolto un intervento che è apparso fuori sincrono: ossia come scandito su un ritmo incommensurabilmente più lento di quel processo di “imbarbarimento” così autorevolmente denunciato. È vero che Nitto Palma ha dedicato, finalmente, una certa attenzione alla situazione degli Opg dove – tragedia nella tragedia - si consuma la sorte di 215 soggetti tuttora internati “nonostante sia stata clinicamente accertata l’assenza di pericolosità sociale”. Ed è stato importante il suo ragionamento sull’eccesso del ricorso alla custodia cautelare, spesso tanto insensata quanto totalmente superflua. Basti pensare che su circa 90mila persone che transitano per il carcere nel corso di un anno, oltre 21mila vi restano da uno a tre giorni. Ma sul piano delle strategie per ridurre il sovraffollamento e rendere più civile il carcere, il ministro è stato cauto fino alla reticenza. Per affrontare il problema di una popolazione detenuta, che supera di oltre 20mila unità la capienza regolamentare, il ministro ha richiamato la realizzazione negli ultimi tre anni di 440 nuovi posti (e non sappiamo quanti siano stati effettivamente occupati, considerata la grave carenza di personale); e ha promesso la “prossima apertura del carcere di Gela, essendosi risolto il problema della condotta d’acqua”. Ma si tratta di un istituto la cui progettazione risale al 1959 (avete letto bene: 1959): e questo dà un’idea plastica di quali siano i tempi, quelli trascorsi e probabilmente quelli futuri, di attuazione dei fantasmagorici “piani-carcere annunciati”. Ma, ciò che soprattutto manca, è una strategia di riforme strutturali. Eppure Nitto Palma aveva fatto ben sperare, insistendo nelle scorse settimane sull’esigenza di una politica di de-penalizzazione: ovvero di riduzione del numero di atti e comportamenti, violazioni e infrazioni oggi classificati come fattispecie penali. E’ la strada che il migliore pensiero giuridico, “di destra” come “di sinistra”, da Carlo Federico Grosso a Carlo Nordio, indica come quella indispensabile per affrontare efficacemente sia le principali disfunzioni del sistema della giustizia, che le più crudeli contraddizioni del sistema della pena. Di ciò, nella relazione del ministro della Giustizia, non c’è più traccia (il dibattito proseguirà martedì prossimo: si può ancora sperare?). La spiegazione è forse semplice: le buone intenzioni del ministro si sono sgretolate davanti a una maggioranza di centrodestra che non rinuncia in alcun modo a leggi-manifesto, come quella sulla recidiva e quella sulle sostanze stupefacenti. Normative che hanno costituito il principale strumento di acquisizione di consenso elettorale presso settori di popolazione che il succedersi degli allarmi sociali ha sottoposto a stress e reso ansiosi.
il Messaggero 22 settembre 2011
Carceri, scandalo ignorato
Luigi Manconi
Grazie all’ostinatissima mobilitazione dei Radicali e allo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella si è arrivati finalmente, ieri, alla convocazione di una seduta straordinaria del Senato sul tema del sistema della giustizia e dell’esecuzione della pena.

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Politicamente correttissimo
Anime e corpi
Perchè la chiesa teme più l'omofilia della pedofilia, perchè alla Lega resta solo 'a pagnotta.
Luigi Manconi
1.Omo-logo.
È bastato scorrere lo statuto della Corte penale internazionale dell’Aja, per rendersi conto che la denuncia
nei confronti di Benedetto XVI a opera di alcune associazioni di vittime della pedofilia è inconsistente. Per
ragioni squisitamente giuridiche, innanzitutto. E tuttavia quella denuncia ha avuto l’effetto di ravvivare il
tema, a distanza di poche settimane dalla controversia tra il Vaticano e il governo irlandese. Quest’ultimo
ha evidenziato “il fallimento della Chiesa cattolica nell’ affrontare adeguatamente l'abuso sessuale nei
confronti di minori da parte del clero”; e ha ricordato come, nel 1997, il nunzio apostolico, su iniziativa
della Congregazione del Clero, suggerisse ai vescovi irlandesi di abbandonare l'ipotesi di introdurre
l'obbligo di denuncia alle autorità civili dei casi di pedofilia nella Chiesa. Come si vede, la vicenda, lungi
dall’esaurirsi, sembra destinata a una continua e dolorosa recrudescenza, nonostante che l’iniziativa di
Benedetto XVI abbia costituito indubbiamente un autentico spartiacque tra due fasi diverse e due modalità,
addirittura divergenti, di affrontare il problema. A mio avviso ciò dimostra che tale questione cela un
drammatico rimosso. Che, cioè, il tema della pedofilia rappresenta per la Chiesa cattolica un irriducibile
fattore di ansia, un profondo focolaio di nevrosi, una sorta di patologia latente. Seppure si accettasse la
tesi, riproposta dalla Chiesa sulla base di alcune parziali indagini, sul mancato rapporto di causa-effetto tra
celibato e pulsione pedofila, non si può negare che una qualche relazione vi sia. Ma, sorvolando su questo,
sono altre tipologie di nessi, intrecci e relazioni a risultare inquietanti. Insomma, come è potuto accadere
che, la comunità che più ha patito al proprio interno la diffusione della pedofilia, sia la stessa che manifesta
la più aspra avversione - unitamente alla religione musulmana- nei confronti dell’omosessualità? Perché la
più indulgente tolleranza nei confronti della pedofilia (ripeto: fino a Benedetto XVI) ha potuto convivere
con la più intransigente ostilità verso la omofilia? In questo paradosso si annida una bruciante questione
psicologica prima che culturale. Chi, come me, parte dall’assunto che tra pedofilia e omosessualità non
vi sia alcun nesso di causalità, si augurerebbe che, all’interno della Chiesa cattolica, le due inclinazioni
vivessero -nella misura in cui è inevitabile vivano- come due fenomeni distinti e che distintamente
venissero considerati quando si manifestano nel mondo esterno. Ma è la pastorale più diffusa, una certa
dottrina, alcuni passaggi della stessa teologia morale, oltre che la pubblicistica che si vuole cattolica, ad
alimentare quell’equivoco: e a indicare una sorta di sequenza fatale tra una omosessualità indirizzata
verso i minori e una omosessualità coltivata tra adulti. Ma se quella sovrapposizione tra i due fenomeni
fosse solo il risultato di una errata analisi (dal punto di vista clinico e da quello sociologico), resterebbe
aperto l’interrogativo di partenza: perché mai un rapporto d’amore tra due adulti consenzienti suscita (o ha
suscitato finora) una riprovazione assai maggiore di quella rivolta a chi esercita un abuso, in ragione di forza
e potere, nei confronti di un minore? Propongo una interpretazione, seppur incerta: l’omofilia tra adulti
consenzienti appare a una Chiesa, confermatasi solido instrumentum regni, un fattore di disordine sociale
ben più insidioso di una prepotenza sessuale esercitata all’interno di un seminario.
2.Linguaggio del corpo.
Nella lega, palesemente ridotta a parodia di se stessa, il linguaggio non verbale ha sempre avuto ampio
spazio: sia quando si esprimeva corporalmente, sia quando veniva verbalmente evocato. Per dirne una,
la lega è il partito dove tutti, dirigenti e militanti, parlano lepidamente di scorregge (buon pro gli faccia).
La tendenza al linguaggio non verbale sembra accentuarsi parallelamente all’esplodere della crisi del
partito e all’accentuarsi della sua autorappresentazione caricaturale. Umberto Bossi, ad esempio, fa
le corna più frequentemente di quanto un militante comunista abbia mai chiuso le dita a pugno e un
militante fascista le abbia tese nel saluto romano. Per non parlare del dito medio, prodotto d’importazione,
evidentemente sfuggito all’ossessione leghista per i dazi. Ai leader della lega, al fine di arricchirne la
mimica e l’espressività, vorrei offrire l’opportunità di aggiungere al consueto repertorio una ulteriore
variabile. Ovvero ‘a pagnotta. Essa consiste nell’allungare la mano destra fino a raggiungere il lato opposto
del torace e affondarla nell’ascella, per poi sbattervi sopra la parte superiore del braccio sinistro. Se
ne ricaverà un suono atroce e gorgogliante, strascicato e liquido. E’ poco elegante ma, vi garantisco,
indimenticabile.
il Foglio 20 settembre 2011
Politicamente correttissimo
Anime e corpi
Perchè la chiesa teme più l'omofilia della pedofilia, perchè alla Lega resta solo 'a pagnotta.
Luigi Manconi
1.Omo-logo.
È bastato scorrere lo statuto della Corte penale internazionale dell’Aja, per rendersi conto che la denuncia
nei confronti di Benedetto XVI a opera di alcune associazioni di vittime della pedofilia è inconsistente. Per
ragioni squisitamente giuridiche, innanzitutto. E tuttavia quella denuncia ha avuto l’effetto di ravvivare il
tema, a distanza di poche settimane dalla controversia tra il Vaticano e il governo irlandese.

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Sorpresa, il personalismo può rifondare la sinistra
Luigi Manconi
Grazie al cielo – è proprio il caso di dire – non c’è stato bisogno di alcuna cruenta guerra culturale o di una
feroce controversia ideologica per far sì che nel vocabolario politico e nel discorso pubblico il termine
persona venisse accolto a pieno titolo.

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ECCO I MIEI DIRITTI
SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO
CONSULENZA GRATUITA
Per la richiesta di permessi di soggiorno
Assistenza per la richiesta di protezione internazionale
Tutela giudiziaria, civile, penale, amministrativa e del lavoro
AVVOCATI IN SEDE
Venerdì Garbatella dalle ore 14 alle ore 18 PIAZZA ADELE ZOAGLI MAMELI 1 ROMA – ASSOCIAZIONE CLOROFILLA
Sabato San Lorenzo dalle ore 10 alle ore 14 VIA DEI SABELLI 88/A ROMA – CASA DELLA PARTECIPAZIONE
http://www.abuondiritto.it/upload/files/volantino_completo_pdf.pdf


 
Primo luglio 2011, un altro "morto di Stato"?
Michele Ferrulli, 51 anni, muore il 1 luglio 2011 sotto casa sua, in via Varsavia a Milano. Ferrulli aveva ritardato il ritorno dalla moglie, che lo aspettava per cena, e si trovava nel bar sotto casa in compagnia di due amici. Pare che il gruppetto fosse sul marciapiede, a bere birra, e pare che Ferrulli avesse acceso lo stereo del suo furgoncino bianco e mandando musica forse a volume un po’ alto. Ad ogni modo, non si sa ancora avvertiti da chi, arrivano sul posto alcuni poliziotti. Prevedibilmente chiedono ai tre di mostrare loro i documenti . Da questo punto, la ricostruzione dei fatti diventa nebulosa. Ferrulli rimane da solo insieme ai poliziotti e quello che fino adesso si è potuto ricostruire, lo si deve a un paio di filmati amatoriali, girati da alcune persone che hanno assistito al fermo. Nelle immagini, mandate in onda tra gli altri dal Tg3, si vede l’uomo riverso a terra, con la faccia sull’asfalto, circondato da poliziotti. Un ingrandimento delle immagini, consente di vedere Ferrulli colpito più volte da calci e pugni sferrati dalle forze dell’ordine. L’audio del video, inedito fino a ieri, fa sentire le voci di due donne romene che stavano filmando: “Lui pesa troppo, l’hanno preso per i capelli, gli hanno dato un colpo nell’occhio”. Voci concitate, preoccupate, qualche piccolo grido lanciato nei momenti in cui è evidente che Ferrulli viene colpito. Muore così, Michele Ferrulli, per un arresto cardiocircolatorio, con le manette a stringerli i polsi dietro la schiena, riverso per terra “come un cane”, come dirà la figlia dell’uomo, Domenica. A Buon Diritto ha raggiunto questa giovane donna e le ha posto alcune domande.
Dopo due mesi e mezzo dalla morte di suo padre, c’è stato qualche passo avanti nelle indagini?
Subito dopo la sua morte, sono stati emessi quattro avvisi di garanzia nei confronti degli agenti che hanno effettuato il fermo. Per qualche tempo, poi, non si è saputo più niente. Nei giorni scorsi, insieme all’avvocato Fabio Anselmo, abbiamo incontrato il pubblico ministero Ruta, che voleva archiviare il caso. Secondo il Dottor Ruta, i due filmati amatoriali che sono stati girati non potevano valere come prova, perché invece del supporto originale era stata consegnata una chiavetta usb. Il pubblico ministero riteneva non utilizzabili i video perché potevano essere stati manomessi. Con l’avvocato Anselmo ci siamo fermamente opposti, consegnando atti nuovi con spiegazioni dettagliate di quanto accaduto e ribadendo che i filmati erano stati scaricati in una redazione televisiva in presenza di testimoni. Finalmente, abbiamo avuto notizia che i carabinieri, insieme a un tecnico informatico, si sono recati nella redazione Mediaset dove era stato scaricato il file e hanno proceduto al sequestro dei filmati. Questo è sicuramente un passo importante.
Quali sono le difficoltà che avete dovuto affrontare?
Le molte cattiverie dette sul conto di mio padre. Hanno scritto che era un pregiudicato, che aveva precedenti penali. Violenza, minaccia a pubblico ufficiale, ingiuria, invasione di terreni o edifici, lesioni personali e insolvenza fraudolenta. Hanno scritto di tutto, neanche una parola è vera. Mio padre non ha mai avuto problemi con la giustizia. Quello che viene spontaneo domandarmi è: chi ha sentito la necessità di fornire tutte queste informazioni false sul suo conto? A chi hanno giovato tutte queste menzogne? Vorrei che qualcuno avesse il coraggio di venire a dire a me tutte queste cattiverie sul suo conto, almeno avrei la possibilità di controbattere, di smentire e di difenderlo. Lui non può più farlo. E vorrei anche sapere dal vice questore perché ha detto, con le lacrime agli occhi in un’intervista, che la famiglia ha rifiutato l’incontro con lui. Anche questo non è mai successo.
Quella sera, nei minuti successivi alla morte di suo padre, molte persone sono accorse sul posto. Che ne è di quelle testimonianze?
Quando sono arrivata in via Varsavia non sapevo ancora niente di quello che era successo. Mia madre mi aveva telefonato, ma non era riuscita a spiegarmi nulla, avevo solo capito che era molto agitata. Conoscevo di vista molte delle persone che erano radunate lì davanti e subito ho notato che tutti erano molto arrabbiati con le forze dell’ordine. I poliziotti venivano insultati e la gente gridava che erano degli assassini. Io ero come impietrita e una persona mi ha addirittura chiesto più volte come potevo stare lì ferma senza reagire. Tutti, comunque, mi hanno incitato ad andare avanti e a cercare giustizia. A distanza di poco tempo invece, c’è chi addirittura non mi saluta più, chi non riesce neanche a guardarmi in faccia, e so anche che alcune persone che hanno testimoniato sono state minacciate di non parlare di quanto avvenuto quella sera. Se nessuno ha colpa, perché tutto questo?
Vorrei solo aggiungere una cosa. Vorrei dire a tutti di non aver paura di parlare. Devono solo dire la verità, raccontare quello che hanno visto. Bisogna avere il coraggio di parlare, perché queste cose non devono accadere più.
14 settembre 2011
Innocenti Evasioni
http://www.youtube.com/watch?v=wzLwfIHtJjQ
Primo luglio 2011, un altro "morto di Stato"?

Michele Ferrulli, 51 anni, muore il 1 luglio 2011 sotto casa sua, in via Varsavia a Milano. Ferrulli aveva ritardato il ritorno dalla moglie, che lo aspettava per cena, e si trovava nel bar sotto casa in compagnia di due amici. Pare che il gruppetto fosse sul marciapiede, a bere birra, e pare che Ferrulli avesse acceso lo stereo del suo furgoncino bianco e mandando musica forse a volume un po’ alto.

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Politicamente correttissimo
Il dottor Dulcamara
Luigi Manconi
“Benefattor degli uomini,/ riparator dei mali,/ in pochi giorni io sgombero/ io spazzo gli spedali,/ e la salute
a vendere/ per tutto il mondo io vo./ Compratela, compratela,/ per poco io ve la do” (Gaetano Donizzetti,
L’elisir d’amore, Atto primo – Scena quinta).
E’ stato Eugenio Scalfari, mentre Giuliano Ferrara assentiva, a evocare il dottor Dulcamara, “medico
ambulante”, a proposito della figura di Silvio Berlusconi. Tutto ciò dopo la proiezione di “Silvio Forever”
(La7, 8 settembre) nel corso di un dibattito diretto da Enrico Mentana, tra Paolo Mieli e gli stessi Scalfari e
Ferrara. Al di là delle valutazioni più strettamente politiche, colpiva l’aspra controversia, che vedeva Scalfari
e Mieli contrapposti al direttore del Foglio, a proposito del carattere di Silvio Berlusconi. Ferrara, per
definire la personalità del premier, ha fatto ricorso due volte al termine “giocoso” e tre al termine “mite”,
suscitando le contestazioni dei suoi interlocutori. Troppo semplice provare a mettere d’accordo tutti
affermando che, come in ogni essere umano, anche in Silvio Berlusconi, convivono tratti psicologici e
inclinazioni umorali e morali, differenti e fin opposti. Troppo semplice e persino superfluo perché, ad
esempio, io che ho sperimentato una volta ( e una volta sola: credo nel 1995) quella “mitezza”, devo dire
che del suo opposto (l’inesorabilità, secondo il Dizionario dei sinonimi e dei contrari, di Zanichelli) leggo
nelle cronache pubbliche e private da oltre un quindicennio. E me ne sento sopraffatto, almeno come
cittadino. Ma non è questo in realtà il punto. Perché mai Ferrara e alcuni pochi altri del centrodestra
apprezzano così tanto questa immagine di “dottore enciclopedico”capace di “portenti infiniti”, fino a
enfatizzarla ed esaltarla? In tal modo, io credo, non si fa un buon servizio a Berlusconi. Al contrario, lo si
rimpicciolisce e lo si rende parodia di se stesso. Emerge, qui, una singolare tendenza, propria di una cultura
di destra, minoritaria ma tutt’ora vivace, che considera morale solo l’amoralità; che fa del disincanto una
precettistica edificante; e che rischia di ridurre il cinismo, da atteggiamento filosofico ed esistenziale, a stile
di vita, quando non a postura e a civetteria. Una simile impostazione sa che il declino del berlusconismo è
in corso ed è irreversibile e ha deciso che l’esito preferibile sia una sorta di rutilante uscita di scena tra
cachinni e sghignazzi (di ballerine ce ne sono già quanto basta). Qui davvero Ferrara è fedelissimo
interprete del berlusconismo come ontologia. Sembra cazzeggio ed è, invece, un discorso sull’essere.
Ovvero su quale sia l’autentico fondamento del berlusconismo e il pensiero di sé che intende lasciare ai
posteri. Silvio Berlusconi ( e Ferrara con lui) teme meno il ridicolo di quanto tema il tragico. Ritiene che la
dimensione tragica possa occultare malamente tutta l’indecenza del melodramma e l’osceno della
sofferenza rappresentata in pubblico. E che l’ammissione della debolezza e della senescenza, del
tradimento e della solitudine sia più disdicevole del rincorrere la fantasia erotica di Nicole Minetti vestita da
suora. C’è una qualche ragione nel paventare un simile rischio, ma la soluzione prospettata è ancora
peggiore. Il “ giocoso” eclissarsi tra fanfare e pennacchi, ma anche il “giocoso” congedo tra tributi e
picchetti d’onore,non mi sembrano proprio all’altezza di quanto Berlusconi ha rappresentato, nel bene e
nel male, nella scena pubblica e nella vita nazionale degli ultimi due decenni. Quel “giocoso” allude a una
futilità svagata e smagata più da entertainer che da uomo di governo: e anche il più severo avversario
commetterebbe un colossale errore se considerasse, di Berlusconi, solo o prevalentemente l’attitudine e
l’attività da showman. Quel “giocoso” non è consentito dalla drammaticità dello scenario in cui Berlusconi
oggi opera (e continuerà a operare per qualche tempo) né dalla complessità del suo ruolo nella vicenda
politica nazionale. Per capirci, i guai che ha combinato ( o, per gli apologeti, i suoi “infiniti portenti”) non
sono superabili con un semplice cambio di governo e non sono liquidabili con un: abbiamo scherzato. Ed è
difficile credere che- giunti a questo passaggio della congiuntura economica e sociale- stia per calare
davanti ai nostri occhi il provvidenziale striscione: siete su scherzi a parte. Insomma, perché negare a Silvio
Berlusconi la pienezza della sua figura e della sua avventura ? E perché –nel momento della sconfitta e della
possibile rovina- negargli l’onore e il piacere , della dimensione (anche) tragica? Chi gli vuole tanto male da
ridurlo alla misura di un Davide Mengacci,con appena una diversa coloritura di capelli?
Politicamente correttissimo
Il dottor Dulcamara
Luigi Manconi
“Benefattor degli uomini,/ riparator dei mali,/ in pochi giorni io sgombero/ io spazzo gli spedali,/ e la salute
a vendere/ per tutto il mondo io vo./ Compratela, compratela,/ per poco io ve la do” (Gaetano Donizzetti,
L’elisir d’amore, Atto primo – Scena quinta).

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Giovedi 15 settembre, ore 18.00
Festa del Pd - Spazio libreria - Palasharp Milano
Giuliano Pisapia, Moni Ovadia, Sandro Favi,
Enrico Borg parlano di
QUANDO HANNO APERTO LA CELLA
Stefano Cucchi e gli altri
di Luigi Manconi e Valentina Calderone
Lettura di Giuliano Turone
Per informazioni:
Ufficio Stampa il Saggiatore 02.20230213
Giovedi 15 settembre, ore 18.00
Festa del Pd - Spazio libreria - Palasharp Milano
Giuliano Pisapia, Moni Ovadia, Sandro Favi,
Enrico Borg

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QUANDO HANNO APERTO LA CELLA
Stefano Cucchi e gli altri
di Luigi Manconi e Valentina Calderone
Lettura di Giuliano Turone
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Politicamente correttissimo
Gagliofferia
Le citazioni banali di Tremonti e un Macchiavelli che già allora sapeva di Silvio Berlusconi
Luigi Manconi
1.L’arte della citazione è tra le più ardue. Risponde a tentazioni irresistibili, e rischia costantemente il precipizio: nell’ovvietà quasi sempre, nell’errore spesso. E, allora, doveva essere davvero esausto o incacchiato Giulio Tremonti quando, a Cernobbio, ha evocato l’immagine della Prova di orchestra di Federico Fellini. Il film è del 1979 e, in questi oltre tre decenni, è stato richiamato a ogni piè sospinto da allenatori di calcio e presidenti della Repubblica. Sinceri sostenitori della responsabilità collettiva e callidi teorici del “socializzare le perdite e privatizzare gli utili”, organicisti e corporativisti, lestofanti e ingenui, tutti hanno strapazzato l’apologo felliniano in termini, quando non meschini, desolatamente banali. Per la verità, Tremonti ha tentato un’operazione più sofisticata: la bacchetta del comando, mezzo indispensabile per creare armonia e cooperazione, è diventata per un verso la bacchetta magica di chi pretende miracoli e, per l’altro verso, lo strumento della disciplina che segnala colpe e minaccia sanzioni. Un inguacchio, insomma. L’unica consolazione è che d’ora in avanti, quella citazione sarà definitivamente inservibile.
2.Sul Foglio di ieri Giuliano Ferrara scrive della necessità di proteggere il premier dalla “gagliofferia nazionale”. Giustissimo proposito, ma palesemente fuori tempo massimo e, soprattutto, scarsamente credibile considerato quale monumento ideologico, antropologico e culturale sia stato edificato in onore di quella stessa Gagliofferia negli ultimi vent’anni. Qui, una bella citazione – non proprio originale - ci va a fagiolo. Niccolò Machiavelli così scriveva nella XI lettera a Francesco Vettori: “Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach”. Dunque, se c’è Gagliofferia è forte la tentazione di frequentarla e questo riguarda, in varia misura, ciascuno di noi. In Berlusconi quella pulsione è formidabile e si traduce in una “accessibilità universale” (da parte, ad esempio, di un condannato per spaccio di droga). Ma quella “accessibilità universale” è stata blandita vezzeggiata e coccolata e trasformata in uno dei connotati più enfatizzati di quell’Arcitaliano che sarebbe Berlusconi e del suo carisma. Per dirne una, qualche mese fa Ferrara così si rammaricava: “perché non son io con Lele Mora”, contrapponendo il mondo di quest’ultimo, così istintuale e autentico e così fassbinderiano e sregolato, alla retorica irrigidita e virtuosa del politicamente corretto. Come si vede, la gagliofferia è stata, del berlusconismo, una bandiera. Ad ammainarla ad esso non possono essere coloro che l’hanno issata sul pennone. Che poi sono gli stessi che scambiano l’hosteria di Machiavelli a Sant’Andrea in Percussina per Cencio la Parolaccia  in vicolo del Cinque a Trastevere. Sia chiaro: non stiamo parlando di stile. Stiamo parlando di politica. E quella condiscendenza reazionaria che ha portato all’esaltazione dell’ingaglioffimento, è all’origine del colossale equivoco a proposito della Lega Nord. Un piccolo partito localista e sub-regionale, che ha costruito una propria identità sulla “invenzione della tradizione” e sulla corrività verso gli umori e le pulsioni più irrazionali e che mai ha saputo passare dalla dimensione del rancore sociale a quella dell’autonomia politica. Dopo quasi un quarto di secolo dalla nascita della Lega, il tasso di decentramento dell’organizzazione statuale è rimasto infimo, il federalismo fiscale irrisorio, la burocrazia centrale dominante. Si è sviluppata, nel frattempo, una casta politica leghista, ancora più autoreferenziale di quella della prima repubblica. Dovevate sentire il vice ministro Roberto Castelli, nel corso della più bella trasmissione di politica-pop (La Zanzara su Radio24) raccontare con virile compunzione di aver rinunciato alle “vacanze in Indonesia” per dedicarsi al bene pubblico. E già che c’era ha confermato che, per i leghisti, Luca Cordero di Montezemolo è grossomodo una scoreggia. (Sempre che, nelle intenzioni di Castelli, non fosse un apprezzamento: qualcuno ricorderà che quella stessa definizione era già stata utilizzata per Gianfranco Miglio, oggi solennemente ricordato dalla Lega nel decennale della morte).
3.Stato di polizia.
Ha ragione Silvio Berlusconi: sono proprio misure liberticide quelle introdotte, di sguincio, nella manovra economica. Ad esempio, grazie all’articolo 8, si potrà derogare “all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che stabiliva il divieto dell’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (Senatore Maurizio Castro, Pdl). Ha ragione Berlusconi: un vero incubo orwelliano.
4.Stato di polizia bis.
“Carcere per gli invasori”, “Manette agli invasori”: questi i titoli dei giornali sulle misure proposte dal ministro dell’Economia. In effetti, un provvedimento così draconiano sembra urgente, se già alla terza giornata del campionato di serie B, nel corso di Bari-Albinoleffe, si è registrato un tentativo di invasione di campo. Prigione per gli invasori.
Il Foglio 6 settembre 2011
Politicamente correttissimo
Gagliofferia
Le citazioni banali di Tremonti e un Macchiavelli che già allora sapeva di Silvio Berlusconi
Luigi Manconi
1.L’arte della citazione è tra le più ardue. Risponde a tentazioni irresistibili, e rischia costantemente il precipizio: nell’ovvietà quasi sempre, nell’errore spesso.

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Lavoro ai Fianchi
Il Big Bang dell'11 settembre
Luigi Manconi
“Il più grande spettacolo dopo il Big bang” (Jovanotti).
***
Sono passati giusto dieci anni da quell’11 settembre dopo il quale, si disse, nulla sarebbe stato più come prima. Con l’11 settembre è finita la fine del Novecento, quell’idea ottimistica della globalizzazione, ancora fiduciosa nel progresso umano, ed è iniziata un’altra storia, fatta di inquietudine e insicurezza. Ma l’11 settembre 2001 è stato innanzitutto una immane tragedia collettiva in cui hanno perso la vita, si stima, 2974 persone per una serie di atti voluti e perseguiti da una organizzazione criminale e da almeno diciannove persone morte insieme con le proprie vittime. Inevitabile che il “mai più come prima” trovasse nella lingua del diritto (e, in particolare, in quello del diritto penale) le prime forme di espressione, su cui ci fa oggi riflettere Federica Resta, in “11 settembre: attentato alle libertà?” (edizioni Dell’Asino).
Che un diritto fondamentale come l’habeas corpus potesse essere oggi fortemente limitato – e in alcuni casi anche negato - in ragione della nazionalità e del mero sospetto di avere commesso un reato, non sarebbe stato, fino a pochi anni fa, forse neanche immaginabile. Tanto meno l’universalità dell’habeas corpus avrebbe potuto essere messa in questione in un ordinamento, quale quello statunitense, che riconosce alla libertà personale la funzione di primo baluardo della democrazia. Sono, questi, solo alcuni esempi delle deroghe ai diritti fondamentali e agli stessi principi dello Stato di diritto che dall’11 settembre 2001 caratterizzano, in misura più o meno profonda, gli ordinamenti di Paesi a democrazia consolidata come quelli europei e, prima ancora, gli stessi Stati Uniti. Dove si è finito per costruire una vera e propria categoria di non-persone, gli unlawful enemy combatants, ricorrendo a una figura risalente addirittura al 1798 e riabilitata nei secoli successivi nei confronti di coloro che, di volta in volta, sono stati identificati come “nemici pubblici”. Minori sono le deroghe ai principi dello Stato di diritto ammesse dalla legislazione anti-terrorismo della maggior parte dei Paesi europei. E ciò anche grazie all’intervento delle Corti superiori, della Corte di giustizia e della Corte europea per i diritti umani, che hanno più volte ribadito la non comprimibilità di alcuni diritti fondamentali quali quello all’immunità dalla tortura e dal refoulement e le garanzie dell’equo processo. Ma anche l’approccio europeo al terrorismo presenta degli aspetti che non possono non preoccupare chi abbia a cuore i fondamentali principi del sistema democratico. Da un lato, infatti, le deroghe ammesse a questi principi non sono irrilevanti: si pensi soltanto alla legge tedesca sulla sicurezza aerea, che imponeva (prima dell’intervento della Corte costituzionale) l’abbattimento di aerei dirottati da terroristi per colpire obiettivi civili o militari, o all’estensione a 120 ore della durata del fermo d’indiziato in Spagna. Dall’altro lato, come rileva l’Federica Resta, l’approccio europeo al terrorismo – pur preferibile a quello statunitense - rischia di estendere le “deroghe ai principi essenziali del diritto penale e delle garanzie anche a settori diversi, individuati discrezionalmente dal legislatore sulla base di esigenze di sicurezza e contrasto all’allarme sociale prodotti da tali reati”. Ciò è avvenuto sia introducendo procedure nuove (come l’espulsione di stranieri senza convalida), sia talora recuperando istituti consolidatisi nella legislazione d’emergenza ed ampliandoli ben oltre il settore di riferimento.  A ben vedere, dunque, riflettere oggi - come fa questo importante libro della Resta - su tali tendenze del diritto significa interrogarsi sul limite oltre il quale nessuna esigenza di sicurezza può legittimare deroghe a libertà e diritti fondamentali senza mettere in discussione gli stessi principi costitutivi dello Stato di diritto. Perché, come afferma la Corte Suprema americana,  “la sicurezza consiste anche nella fedeltà ai fondamentali principi di libertà, tra cui, innanzitutto, la  libertà da arresti arbitrari e illegittimi e la libertà personale” (sentenza Boumediene, 2008). Parole sante. Insomma, la lezione più significativa che emerge da queste pagine è forse quella che ci chiama a osservare con disincanto una “filosofia della storia” considerata nel suo farsi quotidiano, quale esito non solo di dinamiche universali ma anche di conflitti sociali e politici: è una lezione che ci ammonisce a non considerare mai come irreversibile e acquisito definitivamente il progresso raggiunto e il grado di civiltà conquistato.  In realtà, anch’essi sono il risultato di un combattimento.
9 settembre 2011
Lavoro ai Fianchi
Il Big Bang dell'11 settembre
Luigi Manconi
“Il più grande spettacolo dopo il Big bang” (Jovanotti).
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Sono passati giusto dieci anni da quell’11 settembre dopo il quale, si disse, nulla sarebbe stato più come prima.

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