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Adozione, ricerca delle origini, identità

1- Il racconto - Patrizia Conti 2- La ricerca degli adulti - Francesca Avon leggi tutto

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Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto:
Quasi tre morti al giorno tra chi fugge dall’ Africa verso l’ Europa
“Secondo i dati del nostro Osservatorio, sono complessivamente oltre 23.000 i morti in mare lungo le rotte che dalle coste settentrionali dell’Africa vanno verso   l’Europa, laTurchia e le Canarie , dal 1988 a oggi. Questa stima è pienamente confermata dalle  cifre fornite da Italia- razzismo, dal  sito Forteresse Europe, dal coordinamento di organismi di ispirazione religiosa (Acli, Federazione delle Chiese Evangeliche, Centro Astalli, Caritas, Comunità di Sant'Egidio, Fondazione Migrantes) e da  alcune agenzie di stampa internazionali. Quelle cifre si traducono in un dato impressionante: 2,7 morti al giorno lungo  questo arco di tempo. In particolare, negli anni di più intensa migrazione  dalla sponda sud del Mediterraneo (2006-2008), i morti sono stati più di 5 al giorno. Questa drammatica contabilità dice solo una parte delle dimensioni reali della  tragedia : si deve ricordare, infatti, che una percentuale elevatissima ( intorno al 50%) di quei morti vanno classificati come “dispersi”, ovvero cadaveri mai più ritrovati, senza un nome e una tomba. D’altra parte, il numero complessivo dei morti, secondo tutti gli analisti, è calcolato per difetto: di molti naufragi e, ancor prima, di molte partenze, non esiste alcuna documentazione. Ma seppure i numeri qui forniti non fossero, come assai probabilmente sono, inferiori alla realtà, siamo in presenza di un’ autentica strage, che ininterrottamente si riproduce da decenni”.
Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto:
Quasi tre morti al giorno tra chi fugge dall’ Africa verso l’ Europa
“Secondo i dati del nostro Osservatorio, sono complessivamente oltre 23.000 i morti in mare lungo le rotte che dalle coste settentrionali dell’Africa vanno verso   l’Europa, laTurchia e le Canarie , dal 1988 a oggi.

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Politicamente correttissimo
Fora di sé
La cattiva coscienza di chi difende Bossi e Maroni, il cattivo modo di polemizzare con me su Pio XII.
Luigi Manconi
1. Ma, scusate, possibile che non emerga un sussulto di resipiscenza o un minuscolo cenno di autocritica rispetto all’ enfasi che ha accompagnato per anni la vita e le opere di Umberto Bossi e di Roberto Maroni? Il primo si produce in un “fora da i  ball” e nessuno, nemmeno su queste colonne (frequentate da lombardi di buon lignaggio), gli replica come coerenza linguistica e buona creanza vorrebbero: “ma va da via i ciap”.

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Lampedusa
La Rivolta dei Ragazzi

Flavia Paone
Quando arriviamo davanti alla Casa della fraternità, a questa palazzina bassa della Caritas che da settimane è diventata l’alloggio di gran parte dei minori approdati a Lampedusa, quasi non capiamo cosa stia succedendo. E’ il primo pomeriggio di un caldo inizio di primavera, al molo di Cala Pisana la nave Excelsior sta imbarcando i 1.700 tunisini che lasceranno l’isola, la situazione sembra essersi finalmente sbloccata. Qualcuno è già sul punto di tirare un sospiro di sollievo, in una terra dove manca l’aria da mesi, da quando è iniziata l’emergenza e questo lembo di terra è rimasto solo a fronteggiare la miseria e la speranza di migliaia di migranti.

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Catastrofe morale
Luigi Manconi
Tecnicamente parlando. Il discorso di Silvio Berlusconi nella piazza di Lampedusa è sotto il profilo linguistico e sotto quello semantico uno dei punti più bassi della retorica politica e della oratoria pubblica degli ultimi decenni. Lì il carisma berlusconiano si rivela per quello che è: a’ mossa del varietà napoletano tra le due guerre. Il che non significa, certo, che quel discorso risulti inefficace. Ma, al di là del successo immediato, le parole di Berlusconi, trascinano l’azione del Governo in una via senza uscita. E, infatti, il superamento dell’ostilità dei lampedusani non attenua di una virgola il bilancio davvero fallimentare registrato dall’esecutivo nelle ultime settimane. L’Italia appare ridotta ad appendice insignificante di strategie geopolitiche decise da altri, e a una mera “espressione geografica” nelle relazioni sovranazionali e nella sfera delle responsabilità politiche e morali alle quali aspira un paese che si vuole grande. Nessun ruolo nei confronti dei movimenti democratici del Nord Africa e degli assetti futuri del Mediterraneo e nessun programma credibile per le diverse emergenze umanitarie. Una politichetta miserabile e gretta, che limpidamente si esprime nel discorso di Berlusconi a Lampedusa: la galvanizzazione degli umori più bassi e la blandizie verso le pulsioni più oscure, l’intesa complice e l’ammiccamento ruffiano e la promessa mirabolante. Il modello è, platealmente l’animatore di un Club Med. Ma Berlusconi non evoca la spensieratezza smargiassa e vitalistica del Fiorello delle origini, bensì la più bolsa interpretazione di un copione improbabile, destinato all’Attor Giovane (che so? Un Massimo Ciavarro). Il Premier che compra casa in località Cala Francese recita torpidamente una parte che il pubblico già conosce, annoiando e annoiandosi (avete presente Ric e Gian al declino della loro carriera?). E, tuttavia, quelle parole di Berlusconi vanno messe in fila con quelle pronunciate in questi giorni dagli esponenti del centro destra. Una sconfinata ignoranza su ciò di cui parlano (migranti e profughi), una irriducibile propensione alla minaccia e alla prepotenza, un linguaggio triviale e privo di qualunque relazione con la realtà, la grammatica, il diritto internazionale. In poche settimane è stato completato quel processo di stravolgimento in senso xenofobico del discorso pubblico avviato da tempo; è stata travolta l’interdizione morale e culturale che proteggeva lo straniero dalla nostra tentazione all’intolleranza e alla discriminazione; il vocabolario pubblico ha accolto, legittimato e riprodotto le parole della xenofobia, non per mediarle e controllarle, ma per usarle come altrettanti corpi contundenti. Finissimi scienziati della politica analizzano, compunti, il “foera di ball” di Umberto Bossi e ci spiegano come rappresenti la sintesi geniale di un grande disegno politico. Sarà, ma è anche il segno di una catastrofe morale che non andrebbe blandita quasi fosse una manifestazione di innocente folclore. È, né più né meno, che una mascalzonata. E il fallimento del ministro dell’Interno Roberto Maroni e il ridicolo nel quale affonda il ministro degli Esteri Franco Frattini disegnano i tratti psicologici di un ceto politico che oscilla tra paranoia e aggressività. Questo per quanto riguarda la scena pubblica. Dietro, nel back stage - dove provvisoriamente si trova, tra gli altri, il Parlamento della Repubblica - viene approvata un’inversione dell’ordine del giorno, che anticipa il voto sul disegno di legge sui tempi dei processi. Gratta gratta, la roba è lì.
l'Unità 31 marzo 2011
Luigi Manconi
Tecnicamente parlando. Il discorso di Silvio Berlusconi nella piazza di Lampedusa è sotto il profilo linguistico e sotto quello semantico uno dei punti più bassi della retorica politica e della oratoria pubblica degli ultimi decenni.

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Politicamente correttissimo
Tra bolle e bulli
Il confronto sul Testamento biologico è necessario e possibile, ma è ostacolato dai settarismi
Luigi Manconi
Da molti anni penso che la politica, nelle sue implicazioni più profonde, esiga di essere considerata come “bio-politica”. Ovvero capacità di trattare nella sfera pubblica e di trascrivere sul piano normativo i grandi dilemmi che attraversano l’esistenza umana (dalla questione dell’aborto a quella dell’orientamento sessuale, dall’accanimento terapeutico al problema demografico). Non intendo dire che oggi la politica sia solo questo, e nemmeno che sia prevalentemente questo, ma è certo che quei temi sono destinati ad assumere un peso crescente e, soprattutto, tendono a condizionare anche issues classiche (quelle collegate alla sfera della produzione e della distribuzione delle risorse). Si tratta, nel  complesso, di una questione di straordinaria importanza perché interpella, allo stesso tempo e con la stessa radicalità, la nostra sensibilità e la nostra intelligenza, la dimensione delle emozioni primarie e quella degli interrogativi ultimi; e perché mette in crisi credenze e fedi, ideologie e sistemi di valori. Da qui discende, per molti, la necessità di proteggere questa sfera dal passo (inevitabilmente)  pesante e dalle mani (fatalmente) rozze della politica. Si vorrebbe, cioè, che non fosse lo Stato ad avvalersi della potestà di decidere su ciò che è meglio per la nostra vita e per la nostra morte, per la nostra volontà di amare e di procreare. Ma non sempre è possibile: e oggi ci si trova alle prese con un disegno di legge sul “Testamento biologico” illiberale e statolatrico, grossolano come non mai e autoritario come raramente in passato. Ciò conduce a una sorta di “militarizzazione” delle opinioni e a una contrapposizione che sembra imporre a tutti faziosità e settarismo. D’accordo, non c’è il minimo dubbio che ciò capiti anche a me, però almeno ci provo. Qualche settimana fa ho messo l’una accanto all’altra due frasi, la prima di Pio XII e la seconda del Cardinale Elio Sgreccia. Due affermazioni che mi avevano impressionato perché risultavano, sotto il profilo logico e sintattico, perfettamente simmetriche, ma si concludevano in maniera opposta. Qui le ripropongo. Pio XII: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente, anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita? Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì”. Elio Sgreccia: “L’eutanasia è un’azione o un’omissione di un intervento che mira di fatto o con le intenzioni a interrompere la vita o anticipare la morte, sia pure con l’intento di lenire o interrompere il dolore”.
La giustapposizione consente, a mio avviso, una limpidissima valutazione: Pio XII ed Elio Sgreccia danno due risposte totalmente inconciliabili. Per quanto legga e rilegga, non vedo alternative a questa interpretazione nitidamente imposta dal vocabolario della lingua italiana. Al mio articolo rispondono Elio Sgreccia (il Foglio, 22 marzo) e Gianni Gennari (Avvenire, 23 marzo). Nessuno dei due si cura minimamente di argomentare come, all’opposto di quanto da me scritto, le due frasi siano perfettamente coincidenti. Lo affermano perentoriamente e basta. Non soddisfatti, entrambi aggiungono un simpatico dettaglio. Elio Sgreccia sostiene che “non si può concludere che Pio XII era favorevole all’eutanasia”; Gennari getta il cuore oltre l’ostacolo e arriva a farmi dire che Pio XII “era favorevole all’eutanasia”. Ma chi mai, e quando e dove, ha affermato una simile castroneria? E com’è immaginabile una discussione libera e proficua se il punto di partenza e il bersaglio polemico è un’affermazione totalmente inventata attribuita all’interlocutore? Insomma come sarebbe formativo e fonte di conoscenza e di intelligenza un dibattito che si svolgesse nel rispetto reciproco e nell’attenzione per il frammento di verità, per quanto piccolo, di cui ciascuno è titolare. Ma non pare proprio possibile, dal momento che le gerarchie ecclesiastiche sembrano aver affidato tali questioni alle amorevoli cure di due Dottori della Chiesa come Eugenia Roccella e Maurizio Gasparri.
P.S.: per evidenziare l’inconciliabilità tra il Pio XII del 1954 e l’Elio Sgreccia del 2011 avevo richiamato bonariamente la saggezza del motto “un Papa bolla, l’altro sbolla”. La cosa sembra aver oltre modo irritato sia Sgreccia che Gennari (secondo il quale avrei detto in sostanza che “i preti fanno ciò che vogliono”). La reazione indispettita sorprende: l’ironia, in una straordinaria molteplicità di espressioni e di accenti, costituisce uno dei tratti più interessanti della cultura cattolica, e quel motto ne è una conferma. Oltretutto, avevo indicato la fonte: Giuseppe Di Leo, curatore della preziosa rubrica Rassegna Stampa Vaticana (Radio Radicale, domenica, ore 7.00), racconta che più di un cardinale l’ha pronunciata e più di un vaticanista l’ha riportata per iscritto. Gennari, che dei Sacri Palazzi è stato ed è frequentatore quanto Giuseppe Di Leo, lo sa bene. Ma forse vuol farsi bello (davanti al Cardinale) e fa il bullo, sperando che tutto finisca in una bolla (di sapone).
il Foglio 29 marzo 2011
Politicamente correttissimo
Tra bolle e bulli
Il confronto sul Testamento biologico è necessario e possibile, ma è ostacolato dai settarismi
Luigi Manconi
Da molti anni penso che la politica, nelle sue implicazioni più profonde, esiga di essere considerata come “bio-politica”.

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Lavoro ai Fianchi
Fare la guerra oggi per fermare la guerra
Luigi Manconi
l'Unità 25 marzo 2011
Si può rinunciare alla guerra una volta per sempre?
I dubbi intorno all’intervento militare in Libia ruotano tutti, a ben vedere, intorno a quella domanda. Ed è una domanda da prendere sul serio, senza attribuirla necessariamente a una testimonianza profetica o a una proiezione utopistica. E’ certo che bandire la guerra è un obiettivo da perseguire, ma con tutta la povertà e la fragilità dei mezzi  di cui gli esseri umani possono disporre. Bandire la guerra, pertanto, nella nostra concreta esperienza storica, significa  limitare il più possibile il ricorso a essa, ridurre il più possibile i suoi effetti letali, contenere il più possibile la sua micidiale potenza. In altre parole, bandire la guerra comporta, al presente, operare affinchè altri strumenti e altre strategie possano prendere progressivamente il suo posto. Si tratta, in tutta evidenza, di una prospettiva di lunga lena e di un orizzonte lontano, che implicano una serie di drammatici passaggi intermedi, dove la guerra continua a esigere di essere combattuta con la guerra. Non c’è scampo. Dunque, l’interrogativo riguarda il che fare oggi . Proprio oggi, una volta che la situazione è precipitata e  l’intervento militare ha avuto inizio. E, infatti, su che cosa si sarebbe dovuto fare ieri ( e anche solo un mese fa), è possibile trovarsi d’accordo: sostenere le forze di opposizione e, poi, gli insorti, riconoscere il Consiglio nazionale provvisorio, ricorrere a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime di Gheddafi, attuare una  politica di sanzioni e  un’opera di pressione internazionale tramite il coinvolgimento di paesi arabi e africani e offrire una via d’uscita attraverso la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio. Ma questo era valido fino a ieri. Oggi, per riproporre quella strategia, l’unica davvero saggia, è necessario il ricorso alla forza. Da questo crudele paradosso discendono i dilemmi tragici  che dobbiamo affrontare. Innanzi tutto: prima  dell’intervento militare, in Libia c’era una condizione di pace o uno stato di guerra?  La mia risposta è netta. In quel paese c’era un’ acuta  situazione bellica, sotto due diversi profili: a.  per oltre quarant’ anni ha dominato un regime familistico-dispotico; b. la rivolta contro quel regime è stata affrontata con bombe e cannoni. Dunque, lì, in Libia, non è stato l’intervento militare della coalizione a portare la guerra, la guerra c’era, e negli ultimi giorni, si era fatta sempre più cruenta. Quindi la vera domanda è: l’intervento militare è efficace rispetto al fine che intende perseguire (la cessazione della guerra mossa dal regime contro il popolo libico)? Dunque, il ragionamento non deve librarsi nel cielo della teoria e dei principi assoluti, ma deve calare nella concretezza del rapporto tra mezzi e fini. Ovvero: possiamo interrompere la guerra –quella guerra-  facendo la guerra? E gli effetti positivi di quella possibile interruzione sono maggiori degli effetti negativi della sua eventuale continuazione? Chi sostiene l’intervento militare, ritiene, molto semplicemente, proprio questo: bloccare la strage degli insorti significa operare a favore della pace più di quanto si operi per la pace attraverso il mantenimento dello status quo.  Insomma,  il rischio di un pacifismo che finisca col rafforzare i regimi dispotici, in nome di un non intervento presentato come assenza di guerra, esiste davvero. Pertanto, chi è contrario all’operazione militare deve essere in grado di proporre altri strumenti non militari: ma utilizzabili oggi ed efficaci oggi.  In caso contrario il rifiuto della guerra equivale a contribuire  alla capacità del regime di massacrare gli oppositori. In altre, e brutali, parole: i morti “risparmiati”, grazie al mancato intervento militare, verrebbero “compensati” dai morti prodotti  dalle milizie di Gheddafi. Questa macabra contabilità non può essere ignorata, al solo fine  di salvarsi l’anima. Nessuno, infatti, può chiamarsi innocente e  la corresponsabilità  per i morti dovuti alla guerra non è più onerosa della corresponsabilità  nel mancato soccorso, alle vittime, con qualunque mezzo. In sostanza, quando è troppo tardi per ricorrere a un repertorio di azione esclusivamente politico-diplomatica, si presentano   due opzioni, entrambe fonti di lutti. E l’una, quella del non intervento, non è “utopistica” e “nobile” e “ radicale”, mentre  l’altra sarebbe tutta pragmatica e realistica. Anche la prima può risultare solo l’esito di un interesse piccino: quello di mantenere le mani pulite e  coltivare l’infantile superbia di potersi sottrarre a qualunque vincolo e a qualunque condizionamento. E poter scegliere  in assoluta libertà: ma rischia di essere  la libertà di chi guarda da lontano e può permettersi il lusso di non cedere al ricatto. Si dice: né con Gheddafi né con la guerra. Ma si dimentica che  c’è qualcun altro, e non ha voce. Gli insorti, appunto.
Lavoro ai Fianchi
Fare la guerra oggi per fermare la guerra
Luigi Manconi
l'Unità 25 marzo 2011
Si può rinunciare alla guerra una volta per sempre?
I dubbi intorno all’intervento militare in Libia ruotano tutti, a ben vedere, intorno a quella domanda. Ed è una domanda da prendere sul serio, senza attribuirla necessariamente a una testimonianza profetica o a una proiezione utopistica. E’ certo che bandire la guerra è un obiettivo da perseguire, ma con tutta la povertà e la fragilità dei mezzi  di cui gli esseri umani possono disporre.

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Il male minore
Luigi Manconi
l'Unità 22 marzo 2011
Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche - provocare danni incalcolabili e causare vittime civili. Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo - l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni: e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro. Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di riconoscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico. Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo. Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.
Il male minore
Luigi Manconi
l'Unità 22 marzo 2011
Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale.

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Politicamente correttissimo
Divertente?
Il Cav. ha superato un crinale decisivo, e da barzellettiere è diventato oggetto di storielle
Luigi Manconi
1.Sarà forse per l’età che avanza ( per la verità ero così sin da piccino), ma sempre più spesso mi accade di concentrarmi su minuti dettagli.  E non perché vi cerchi Dio o il Demonio,come vorrebbe la retorica, bensì perché quel dettaglio può rivelare  una curiosità rimossa o una passione taciuta. Qualche giorno fa, su Radio24,nel corso de’ La Zanzara, Giuseppe Cruciani e David Parenzo intervistano la senatrice del Pdl Diana De Feo, moglie di Emilio Fede. Il risultato è strepitoso. La De Feo, parlando di Silvio Berlusconi, insiste sul fatto  che si tratta di un uomo “divertente”, anzi “divertentissimo”e “spiritosissimo”, che “racconta sempre barzellette”. Eccolo, il dettaglio mirabile e rivelatore. A ben vedere, nel processo di costruzione dell’immagine del premier, nella sua forma ordinaria e quotidiana e nella sua proiezione mitologica, questo tratto della personalità è diventato, col tempo, quello principale. Per un certo periodo, equiparato al tratto del pragmatismo (“l’uomo del fare”),e  ora trasformato in fattore dominante e tendenzialmente esclusivo della sua identità. Lo si vede nelle parole della De Feo così come nella rappresentazione più diffusa del premier a opera dei suoi fan. E  anche gli estimatori più raffinati (quelli che scrivono sul Foglio), richiamano costantemente quella natura “divertente” quando esaltano la personalità di arcitaliano di Berlusconi, la sua eccessività e ridondanza, la sua incontinenza irriguardosa e sfrontata.  Ma è davvero divertente tutto ciò? Suscita davvero allegria? Gli autori del romanzo borghese italiano (Piero Chiara, Lucio Mastronardi, Goffredo Parise …) hanno sempre disegnato nel “signore che racconta le barzellette”i tratti del  personaggio più triste e tristo della loro narrazione. La dinamica del riso, di conseguenza, risultava tutta ai danni di chi faceva lo spiritoso, immancabilmente oggetto dello spirito e del riso altrui. Non è esattamente ciò che sta succedendo a Silvio Berlusconi? E’ come se tutta la materia, da lui genialmente dominata fin’ora ( appunto la barzelletta, la battuta irriverente, la galanteria porcellona, l’iperbole del kitch, il sarcasmo che si fa iracondia, lo sberleffo che diventa derisione e, via via, il gesto, l’ammiccamento, la strizzatina d’occhio, le corna … )  si fosse rovesciata repentinamente contro il suo autore, trasformandolo in bersaglio e vittima. Il ridicolo è qualcosa difficile da maneggiare, è scivoloso  e saponoso: a furia di brandirlo, può schizzarti tra le dita e rimbalzarti in faccia. Ecco, è come se  quella categoria di Ridicolo cui Berlusconi ha dato fondo per giocare col suo ruolo e con le istituzioni e con le procedure, col suo popolo e con lo Stato, e con gli altri Stati e statisti, si fosse frantumata come una pentolaccia o un palloncino pieno d’acqua, o peggio, rovesciando il contenuto su chi vi si trovasse sotto. E sotto c’era proprio lui, Silvio Berlusconi. Dietro tutto ciò c’è un’ importante questione politica, che rimanda ai fondamenti storici e ideologici del populismo nelle società contemporanee. Ma, a spiegare Berlusconi, ora può servire più e meglio Carletto Dapporto. Quest’ ultimo ( c’era in lui una certa  attempata lascivia che si ritrova in Berlusconi), Walter Chiari, Gino Bramieri e, qualche tempo dopo, Gigi Proietti, rappresentano i più grandi barzellettieri della storia dello spettacolo italiano. Ma c’era in loro, sempre, quella attorialità  che li rendeva inequivocabilmente raccontatori e che segnava una distanza tra loro e il protagonista/vittima della barzelletta stessa. Potevano esserne i carnefici,  più spesso ne erano i soccorritori, ma in ogni caso non vi si identificavano. Dunque, non ne potevano essere travolti e sconfitti. E’quanto, invece, sta succedendo a Berlusconi. E ciò vale per la categoria del Ridicolo, e anche per quella della Trombata (Il Foglio di ieri). Hai un bel dire e  tutto, per altro, è stato ben detto: il peccato non è reato, la privacy è sacra, la tutela della sfera intima, i vizi privati e le pubbliche virtù, il moralismo come invidia dell’ etica … Tutto giusto, ma quando poi un certo crinale viene superato (per colpa delle procure invadenti o dei giornali guardoni, dell’esibizionismo puerile o del senso di impunità, della voracità sguaiata o del mercato della pornografia, del gioco del meretricio e del lenocinio), il sontuoso libertinaggio  del Capo, fin’ora oggetto di culto e devozione, precipita in ludibrio. L’epopea erotica è diventata, ormai, quella delle 33donne33 mascherate da infermiere, poliziotte, giocatori del Milan. E il grande priapo diventa quello che è: un uomo anziano con problemi urologici e col “culo floscio”. Fatale che non sia più un raccontatore di barzellette, un Carletto Dapporto ( ricordate il Maliardo?) della scena pubblica mondiale, ma un oggetto di storielle licenziose. Avrebbe potuto salvarlo la politica, ma pensate solo alle ultime due performance del governo. Quella sul nucleare e quella sulla Libia. Se Berlusconi non è più “divertente”, i suoi ministri, li potete ritrovare alla Corrida, che –mestamente-  fanno le imitazioni.
2. Scommettiamo che il ponte sullo Stretto non si farà mai?
il Foglio 22 marzo 2011
Politicamente correttissimo
Divertente?
Il Cav. ha superato un crinale decisivo, e da barzellettiere è diventato oggetto di storielle
Luigi Manconi
1.Sarà forse per l’età che avanza ( per la verità ero così sin da piccino), ma sempre più spesso mi accade di concentrarmi su minuti dettagli.  E non perché vi cerchi Dio o il Demonio,come vorrebbe la retorica, bensì perché quel dettaglio può rivelare  una curiosità rimossa o una passione taciuta.

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Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto
Manconi: “il ministro dell’Interno trasferisce illegalmente i profughi”
“Sono cominciati i trasferimenti coatti di numerosi profughi dai Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (e alcuni dai Centri di identificazione ed espulsione dove si trovavano del tutto abusivamente) verso il Cie di Mineo (Catania).

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Nucleare, si sceglie con razionale emotività
“l'uomo si serve degli elaboratori/ per migliorare il mondo in cui si vive/ percentuali di particelle solide/ presenti nell'atmosfera/tutti i dati raccolti sono trasmessi all'elaboratore./ Sapremo quante volte fare l'amore/o quante volte i fiumi in Italia traboccano”.
Roberto Roversi, Lucio Dalla, Anidride Solforosa, 1975
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1. Anch’io penso, come Pippo Civati, che il referendum sul nucleare  possa costituire un passaggio assai importante della politica nazionale. Non si tratta di decidere ora (attenzione: ora) quale debba essere il programma energetico, compiuto e articolato, per i prossimi decenni. E non si tratta nemmeno di tracciare ora  una intransigente linea di demarcazione tra filonuclearisti e antinuclearisti. Oggi non è questo il punto. Oggi chi dice: “non  è in discussione la scelta nucleare”, come fanno alcuni ministri del governo Berlusconi, non è un coerente  filonuclearista: è, perdonatemi, un autentico cretino. Perché mai  infatti, tenuto conto di quanto accade in Giappone, la politica nucleare non dovrebbe  essere “in discussione”? Quale incrollabile pregiudizio scientista  dovrebbe indurre a una simile dogmatica dichiarazione di fede? In altri termini, anche chi coltiva un atteggiamento non ostile, o persino favorevole, verso una politica energetica integrata, capace di combinare fonti diverse (compresa quella nucleare), deve sentirsi in dovere di dubitare. E,  dunque, assumere una posizione rispetto al prossimo referendum sulla base di criteri tutti pragmatici. Il primo dei quali è il principio di precauzione, il secondo è quello del rapporto tra costi e benefici, il terzo rimanda alla relazione  tra decisione e consenso (ovvero tra scelta pubblica e  volontà dei cittadini). Sotto tutti questi profili, anche i nuclearisti convinti, ma  leali – che so?  Chicco Testa e Franco Debenedetti — dovrebbero esprimersi contro il nucleare in occasione del referendum. Per una profonda ragione intellettuale: lo sviluppo tecnologico-scientifico è tutt’ora inadeguato al controllo della potenza che può suscitare.
2. Nel molesto chiacchiericcio, quasi sempre reazionario, dei nuclearisti alla “piccolo chimico”, domina un argomento. E’ tutto un corrucciato e corrusco richiamo alla necessità di “decidere razionalmente”,di “ragionare con freddezza”,  di “non cedere alla paura”. Si tratta di un ragionamento davvero risibile. Perché mai la “emotività”, assai legittimamente correlata a una simile catastrofe e a un suo possibile esito addirittura “apocalittico”, dovrebbe essere espunta dalle motivazioni di una scelta razionale? Quale idea di razionalità, arida e, in ultima istanza, in-sensata,  viene coltivata? E’ una concezione oscura e oscurantista quella che vorrebbe l’emotività come un retaggio ancestrale o una pulsione primitiva e non, come invece è, un lucido e consapevole sentimento dell’intelligenza e dell’anima.
3. Beppe Grillo: “De Magistris  ha chiesto al Parlamento europeo di far valere la sua immunità: e a chi lo critica ha dato una risposta all’altezza di Berlusconi e di Mastella”. Luigi De Magistris: “l’attività di Grillo è guidata da ben noti gruppi imprenditoriali e della comunicazione. Evidentemente vuole mantenere il suo marchio.  Invito Grillo a scendere dalle sue abitazioni che valgono milioni di euro, a togliersi le pantofole e a venire  in piazza con noi”. Ho riportato alcune battute del  simpatico confronto  tra  Grillo e De Magistris. Come definirlo? Un esempio di dibattito trasparente? Una manifestazione di civile dialettica? A me sembra, piuttosto, una sceneggiata malavitosa. Viene in mente l’antica saggezza di quel detto popolare: c’è sempre uno più puro che epura l’impuro. Ma, soprattutto, si manifesta - in quello scontro sanguinoso e fratricida -  il fallimento di una politica che non vuole e non sa essere politica. E che si riduce al grido strozzato contro Berlusconi e contro chi non gli si oppone  con adeguata vigoria.  E ignora – nell’ enfasi sudaticcia e tonitruante di un antiberlusconismo ridotto a maniera -  la realtà materiale delle iniquità e delle diseguaglianze, delle sofferenze e delle dipendenze, degli ospedali psichiatrici e delle carceri, dei centri di identificazione e di espulsione e dei Sert. E’ la politica dell’estremismo vocale e gestuale, che può coltivare serenamente contenuti “di destra”, ma che urla compulsivamente  al tradimento o, peggio mi sento, all’ “inciucio”.  Lo si è già visto mille volte e, mestamente, lo si rivede: Sonia Alfano che critica Di Pietro che critica Santoro che critica Travaglio che critica De Magistris che critica Grillo… in fondo, ma molto in fondo, resta non criticata (per ora) Satanik. Ma anche lei deve stare in guardia.
Lavoro ai Fianchi
l'Unità 18 marzo 2011
Nucleare, si sceglie con razionale emotività
“l'uomo si serve degli elaboratori/ per migliorare il mondo in cui si vive/ percentuali di particelle solide/ presenti nell'atmosfera/tutti i dati raccolti sono trasmessi all'elaboratore./ Sapremo quante volte fare l'amore/o quante volte i fiumi in Italia traboccano”.
Roberto Roversi, Lucio Dalla, Anidride Solforosa, 1975

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Politicamente correttissimo
La bioetica arcigna
Tra l'attuale posizione ecclesiale sul fine vita e la consapevolezza dolorosa di Pio XII, c'è differenza.
Luigi Manconi
Giuseppe Di Leo, curatore dell’indispensabile Rassegna Stampa Vaticana ( Radio radicale, domenica, ore 7.00)mi racconta che, nel discorso curiale, spesso si sente risuonare il seguente detto:  “un papa bolla, l’altro sbolla. Per fortuna”. Ciò contribuisce  a spiegare come sia possibile l’elaborazione e la comunicazione di differenti approcci dottrinari e  di indirizzi pastorali in aperto conflitto. E se questo vale per le diverse  interpretazioni offerte da successivi pontefici, figuriamoci quando a pronunciarsi sono teologi morali o bioeticisti. La confusione può essere massima.

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La vera tragedia biblica
di Luigi Manconi
Passiam di plebi varie tra i dolori, de la nazione umana precursori”
Pietro Gori, 1895
Il primo a usare la formula “esodo biblico”, dopo le rivolte nei paesi del nord Africa, è stato il ministro dell’Interno Roberto Maroni. In ragione della sua impareggiabile prevedibilità, la formula non poteva non avere un gran successo: e, così, è stata detta e ridetta e, a distanza di alcune settimane, è stata ripresa dal presidente del Senato Renato Schifani. Il che ne ha sancito la definitiva e inappellabile inutilizzabilità. Ma il suono, evidentemente, restava, ancora nell’aria, carico di una inquietante minaccia. Tanto più che quell’aggettivo, “biblico”, veniva accostato a una ridda di cifre tanto approssimative e infondate quanto vertiginose: si è arrivati a parlare di 2,5-3 milioni di persone che premerebbero sulla costa sud del Mediterraneo. Nessuno, ovviamente, ha provveduto a indicare fonti e a segnalare basi (statistiche, demografiche, economiche, sociali) di un fenomeno di così abnorme portata. E, per certi versi, è vero che l’efficacia di quelle cifre è tanto più suggestiva quanto più risulta mera evocazione, pura immagine, richiamo fantasmatico. A nulla vale sottoporre empiricamente quelle cifre al test di un elementare buonsenso. Per esempio: se le barche provenienti dal nord Africa portano ciascuna, alcune decine di persone (fino a un massimo di 200/250), un semplice calcolo aritmetico, dovrebbe essere sufficiente a ridimensionare l’entità di quell’ “esodo”. Eppure appena qualche giorno fa, lo stesso Maroni ha evocato un termine ancora più minaccioso: “invasione”. A tutto ciò sarebbe profondamente sbagliato, ma soprattutto vano, opporre semplici rassicurazioni. Il problema esiste, eccome se esiste. Ma si tratta di governarlo, non di rimuoverlo. Si tratta di programmare l’accoglienza – certamente a livello sovranazionale – non di limitarsi alla strategia del respingimento. Si tratta di organizzare con saggezza e con prudenza, adeguate modalità di controllo e distribuzione dei flussi, non di reprimerli e di schiacciarli all’origine, come si ritiene utopisticamente di poter fare. Il dramma è che “esodo biblico” e “invasione” sono altrettanti esorcismi, che hanno il solo scopo di sublimare le nostre paure e di immobilizzarci. Un esempio? Dal 20 novembre del 2010 l’Italia e l’Europa non hanno saputo trovare una soluzione al dramma, questo sì “biblico” (si consuma sul Sinai, ha come paesaggio il deserto, trascorre tra schiavitù e fuga), di appena poco più di duecento profughi in mano ai mercanti di carne umana. E una parte di essi, in precedenza, erano stati respinti mentre tentavano di raggiungere le coste italiane. A distanza di mesi, questa è la situazione, come viene raccontata da don Musssie Zerai, prete cattolico eritreo che, dall’Italia riesce a collegarsi telefonicamente con quegli infelici: “inizialmente siamo entrati in contatto con 80 eritrei provenienti dalla Libia, poi abbiamo saputo di altri 170 ostaggi. Non conosciamo quale fine abbiano fatto 100 di essi, presumibilmente venduti a un altro gruppo di trafficanti. Tra il 28 novembre 2010 e il 5 marzo 2011, 20 persone sono state uccise e altre sono state sottoposte a intervento chirurgico per l'espianto di un rene come forma di pagamento del riscatto. A ciò si aggiunge la violenza quotidiana, anche sessuale, esercitata sugli ostaggi. Sono incatenati, affamati e tenuti in condizioni disumane. Da pochi giorni sappiamo dell’esistenza di un altro gruppo di 30 sequestrati. Affermano di aver assistito all’espianto di organi dai corpi di persone appena uccise. Gli unici usciti da questo incubo sono quanti hanno avuto la possibilità di pagare il riscatto grazie all’aiuto dei loro familiari e amici. Ad oggi risultano essere nelle mani dei predoni circa 150 eritrei ed etiopi. Non può essere taciuto che questa situazione è una delle conseguenze della politica europea di chiusura delle frontiere che sempre più, attraverso la costruzione di muri fisici, legali e amministrativi, allontana le persone che cercano protezione nel nostro continente”.
Così don Mussie Zerai. E il suo grido d’aiuto, inascoltato per mesi, oggi rischia di incontrare un silenzio ancora più assoluto. Ma al peggio non c’è mai fine e a errore siamo capaci (eccome se siamo capaci) di aggiungere nuovo errore. Immaginiamo quale sia oggi la risposta all’allarme lanciato dal sacerdote eritreo: con tutti i nuovi profughi a cui pensare, come curarci di questi profughi “vecchi” di quattro mesi? A ciò possiamo replicare in un modo solo. Ed è un modo assai più concreto e razionale di quanto possa apparire: “non ci si può salvare da sé”. E non è che la si debba considerare una boiata solo perché, a scriverlo, è stato quel comunista di Bertold Brecht.
l'Unità, 11 marzo 2011
La vera tragedia biblica
Luigi Manconi
Passiam di plebi varie tra i dolori, de la nazione umana precursori”
Pietro Gori, 1895
Il primo a usare la formula “esodo biblico”, dopo le rivolte nei paesi del nord Africa, è stato il ministro dell’Interno Roberto Maroni. In ragione della sua impareggiabile prevedibilità, la formula non poteva non avere un gran successo: e, così, è stata detta e ridetta e, a distanza di alcune settimane, è stata ripresa dal presidente del Senato Renato Schifani.

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