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Adozione, ricerca delle origini, identità

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Politicamente correttissimo
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Luigi Manconi

“ Un po’ di dignità, ragazzi” (Policarpo De’ Tappetti)

L’affermazione marxiana che vuole, nel ciclo storico, la tragedia reiterarsi come farsa è tanto abusata da non potersi evocare nemmeno per perifrasi.

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QUANDO HANNO APERTO LA CELLA. Stefano Cucchi e gli altri
Il Saggiatore
di Luigi Manconi e Valentina Calderone
date delle presentazioni
http://www.abuondiritto.it/upload/files/MILANO_15_GIUGNO.pdf
QUANDO HANNO APERTO LA CELLA. Stefano Cucchi e gli altri
Il Saggiatore
di Luigi Manconi e Valentina Calderone

 
Notti e nebbie (Carlo Castellaneta)
Luigi Manconi
Giuseppe Uva muore  il 14 giugno del 2008, nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo a Varese, giusto tre anni fa. Si trovava sotto trattamento sanitario obbligatorio, in stato etilico: e il personale gli somministrò degli psicofarmaci controindicati nella sua condizione, che – secondo l’accusa - ne avrebbero provocato il decesso. Era giunto nel pronto soccorso di quell’ospedale alle ore 5.48 di quel mattino, dopo aver passato lunghe ore nella caserma dei cabinieri di via Saffi. Qui era stato portato insieme all’amico Alberto Biggiogero perché sorpresi, in stato di ubriachezza, a disturbare la “quiete pubblica”. Biggiogero in un esposto presentato alla procura di Varese il giorno dopo, farà un racconto estremamente circostanziato. Lui si trova in una sala d’attesa, ma sa che Uva è stato portato in una stanza sulla destra rispetto all’ingresso della caserma. E, da dove è seduto, crede di distinguere le urla disperate dell’amico, intervallate dal suono di colpi sordi. Biggiogero tenta di uscire dalla sala d’attesa e percorrere il corridoio, ma viene bloccato da quattro agenti e dal piantone che lo atterrano e iniziano a picchiarlo. Nonostante questo, Alberto udirà distintamente le grida di Giuseppe per un’altra ora e mezza. A un certo punto un “carabiniere grosso”, mostrando ai colleghi una ferita alle dita della mano, dice: “sto pezzo di merda”. E poi, rivolgendosi a Biggiogero: “non preoccuparti, che dopo arriva anche il tuo turno”. Fortunatamente, dopo poco, Biggiogero viene lasciato solo. Ha ancora con sé il cellulare e chiama il 118. La seguente conversazione è agli atti dell’indagine:
B: Sì buonasera sono Biggiogero posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi dei carabinieri?
118: Sì, cosa succede?
B: Eh, praticamente stanno massacrando un ragazzo.
118: Ma in caserma?
B: Eh sì.
118: Ho capito. Va bene adesso la mando eh.
B: Grazie.
118: Salve salve.
B: Salve.
L’uomo che risponde al centralino del 118, però, ritiene opportuno chiamare la caserma, prima di fare intervenire l’ambulanza:
Carabinieri: «Carabinieri»
118: «Sì salve, 118»
C: «Sì?»
118: «Mi hanno richiesto un’ambulanza. Non so mi ha chiamato un signore dicendo di mandare un’ambulanza lì da voi, me lo conferma?»
C: «No, ma chi ha chiamato scusi?»
118: «Un signore. Mi ha detto che lì stanno massacrando un ragazzo e che voleva un’ambulanza.»
C: «Un attimo che chiedo.»
(dopo qualche minuto)
C: «No guardi son due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi»
118: «Sì sì non ti preoccupare, ci mancherebbe, ho chiesto. Ciao ciao»
Dopodiché il carabiniere “grosso” torna nella stanza dove si trova Biggiogero e, prima di sequestrargli l’apparecchio, gli dice “qui il telefono si tiene spento, testa di cazzo, qui comandiamo noi”. Ovviamente l’ambulanza non arriva. Più tardi sopraggiunge  il padre di Biggiogero e il figlio coglie l’occasione per urlare di nuovo che stanno «massacrando» l’amico. Il carabiniere «grosso» gli restituisce il cellulare senza dire una parola, l’altro militare dice che, in realtà, è Uva a farsi del male da solo, sbattendo contro le sedie, la scrivania, gli stivali degli uomini presenti nella stanza (in alcune deposizioni dei militari, troviamo questo passaggio: «il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento»). Infine all’alba Uva viene portato al pronto soccorso e poi nel reparto psichiatrico dove morirà alle intorno alle 11. Da allora sono passati tre anni. In questo periodo un testimone decisivo come Biggiogero mai è stato ascoltato dalla Procura e , a quanto se ne sa, le indagini su quella notte in caserma non hanno fatto un solo passo avanti.  Attualmente è in corso il processo relativo alle responsabilità dei sanitari dell’ospedale. Una prima inchiesta per omicidio colposo vede imputati i due medici: quello del pronto soccorso e quello del reparto psichiatrico. Nell’udienza preliminare, il giudice decide il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso, in quanto a prescrivere gli psicofarmaci sarebbe stato un altro medico, la cui firma illeggibile non ne ha consentito l’identificazione. Ma risulta sorprendente che mesi di indagini non siano stati in grado di far emergere il nome di quel medico. E così resta indagato un solo sanitario. Il dibattimento prosegue, tra mille contraddizioni, tutte puntualmente evidenziate dagli avvocati della parte civile, Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Alessandro Gamberini. Ma ciò che anche questa fase processuale evidenzia con maggiore nitidezza è che l’indagine parte, grottescamente, dalla fine. Su quelle lunghe ore trascorse da Giuseppe Uva in caserma,  sembra che nessuno voglia sollevare il pesante velo che per  tre anni vi si è depositato.
17 giugno 2011 l'Unità
Notti e nebbie (Carlo Castellaneta)
Luigi Manconi
Giuseppe Uva muore  il 14 giugno del 2008, nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo a Varese, giusto tre anni fa. Si trovava sotto trattamento sanitario obbligatorio, in stato etilico: e il personale gli somministrò degli psicofarmaci controindicati nella sua condizione, che – secondo l’accusa - ne avrebbero provocato il decesso.

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Minori in fuga: dove scappano i ragazzini tunisini approdati a Lampedusa?
Alfio Sciacca
corriere.it 16 giugno 2011
CATANIA – Per capire che fine fanno i minori non accompagnati che periodicamente arrivano a Lampedusa basta suonare al numero 146 di Corso Indipendenza a Catania. In un palazzone in cemento armato c’è il centro “Santa Maria del Lume”. Giuridicamente è un Ipab (Istituto di Pubblica Assistenza e Beneficenza) della Regione Siciliana, ma da alcuni anni accoglie prevalentemente i migranti minorenni.
VOLATILIZZATI - «Negli ultimi mesi ne sono arrivati circa 150 - spiegano gli operatori – anche se attualmente ce ne saranno meno di trenta». E gli altri? «Sono andati via, scappati, volatilizzati». Tradotto: oltre l’80% dei minori assegnati a questa struttura ha fatto perdere le tracce. «Il record lo abbiamo battuto con un gruppo di egiziani –spiega il direttore Ignazio De Luca- entrati la sera l’indomani mattina non c’erano più». Il centro “Santa Maria del Lume” è in testa ad una sorta di “black list” delle comunità per minori. Una terra di nessuno dove la situazione è ormai sfuggita di mano. E non solo perché è stato teatro di scontri e tafferugli che hanno richiesto l’intervento della polizia, ma soprattutto perché conta il più alto tasso di fughe tra tutti i centri della Sicilia e forse d’Italia.
SENZA VESTITI- I minori che scappano li puoi facilmente incontrare nei pressi della stazione centrale di Catania in attesa di saltare clandestinamente sui treni per il Nord. Scappano perché non viene offerta loro alcuna possibilità concreta di integrazione. Ma denunciano anche gravi condizioni di degrado all’interno della comunità. Dal loro arrivo a Lampedusa, il 18 marzo scorso, non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di un cambio dei vestiti. Dicono di non avere la possibilità di chiamare casa e sarebbero costretti a dormine a decine nella stessa stanza, a mangiare cibo scadente e subire soprusi e persino pestaggi. Dall’altra parte replica a muso duro il direttore del centro Ignazio De Luca che smentisce tutto ed anzi mostra le foto delle devastazioni di cui si sarebbero resi responsabili proprio questi minori in fuga.
SOVRAFFOLLAMENTO - Le testimonianze dei ragazzi e la replica del direttore De Luca (nei video) rappresentano solo la punta dell’iceberg di un problema ben più vasto, complesso e sottovalutato. Perché si scappa da Catania ma si scappa da tutte le 52 comunità della Sicilia. Come conferma il questore di Agrigento Girolamo Di Fazio, da anni in prima linea sul fronte immigrazione. «Il dato di Catania è sicuramente da considerarsi un picco –spiega- in media scappa quasi il 50% dei minori che collochiamo nelle varie strutture presenti sul territorio».
L’allarme è stato più volte lanciato da Save the Children che tiene costantemente aggiornato il flusso dei minori, dal loro arrivo a Lampedusa fino al collocamento in comunità. «Complessivamente c’è un alto tasso di fughe –ammette Viviana Valastro coordinatrice del progetto Presidium di Save the Children- anche se abbiamo riscontrato che si scappa soprattutto dalle comunità sovraffollate come nel caso di Catania. E questo perché più sono i ragazzi meno è possibile seguirli. Inoltre c’è un’accelerazione col trascorrere del tempo: più passano i giorni, più i minori vedono deluse le loro aspettative, più aumentano le fughe. E i primi a scappare sono quelli prossimi ai diciotto anni».
RICHIEDENTI ASILO - Perché temono di essere espulsi. Può infatti restare in Italia solo chi ha l’opportunità di raggiungere altri famigliari, di seguire un percorso di affidamento oppure chi riesce a trovare un lavoro. Tranne che si tratti di ragazzi che possono accedere alle tutele previste per i richiedenti asilo. Proprio per favorire l’integrazione dei minori le comunità (che percepiscono dallo Stato circa 60 euro al giorno per ogni ospite) in teoria dovrebbero assicurare corsi di apprendimento della lingua italiana, oltre a garantire istruzione e avviamento al lavoro. Ma nei fatti è difficile persino trovare dei semplici mediatori culturali che rendano possibile l’interlocuzione con i minori. Ecco perché restare in Italia una volta diventati maggiorenni è estremamente difficile. A quel punto non c’è alternativa alla fuga, magari per tentare di raggiungere altri connazionali.
PARENTI ASSENTI - Del resto i centri per minori non sono strutture di detenzione e dunque non c’è come fermarli. Molti dei ragazzi assegnati alle comunità siciliane sono tunisini che vorrebbero ricongiungersi con loro parenti, principalmente in Francia. Ma le procedure sono spesso lente e complesse. A quel punto non resta che la via della clandestinità. «Se da un lato le aspettative di questi minori restano deluse per la lentezza della procedure – osserva la Valastro- capita anche che siano gli stessi parenti indicati per il ricongiungimento a non volerli accogliere». Quali che siano le ragioni c’è ormai un piccolo esercito di minori clandestini che vaga per le città italiane finendo spesso nella rete della criminalità organizzata. «Lo riscontriamo –spiega Di Fazio- quando ci chiamano polizia o carabinieri di altre città dove sono stati fermati per qualche reato».
Con la ripresa massiccia degli sbarchi in Sicilia il numero dei minori clandestini cresce di giorno in giorno. Solo nei primi mesi del 2011 a Lampedusa sono approdati oltre 1.500 minori non accompagnati, 400 dei quali ancora “parcheggiati” sull’isola perché non si sa dove collocarli. Grandi numeri che rendono molto difficile la gestione dell’accoglienza e dell’integrazione. «Perché sia efficace il collocamento dovrebbe avvenire nell’ambito di piccole comunità di 10 minori –spiega Viviana Valastro- il fatto che ci siano centri che ne arrivano ad ospitare anche 70 rende praticamente impossibile parlare di scuola, apprendimento della lingua, integrazione. Per questo avevamo suggerito di utilizzare le strutture più grandi solo come luoghi di transito in vista di un collocamento finale in comunità più piccole».
Insomma se c’è grande attenzione e tanta commozione quando questi ragazzi sbarcano a Lampedusa, con le loro storie e il loro carico di dolore, finiscono per essere rapidamente dimenticati una volta collocati in comunità. Come se questo non fosse solo l’inizio di una fase ben più delicata e difficile da gestire.
Alfio Sciacca
CATANIA – Per capire che fine fanno i minori non accompagnati che periodicamente arrivano a Lampedusa basta suonare al numero 146 di Corso Indipendenza a Catania. In un palazzone in cemento armato c’è il centro “Santa Maria del Lume”. Giuridicamente è un Ipab (Istituto di Pubblica Assistenza e Beneficenza) della Regione Siciliana, ma da alcuni anni accoglie prevalentemente i migranti minorenni.

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politicamente correttissimo
Voi subalterni
Luigi Manconi
1.E se ci fosse una resa senza condizioni, non sarebbe meglio per tutti? Già Andrea Marcenaro  ha ricordato di esser stato, lui, “sempre di sinistra” (e io sono qui a confermarlo).

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Il Testamento biologico di Giancarlo Brignone

 
Politicamente correttissimo
Isterici
Luigi Manconi
La Global  Commission on Drug Policy, composta da autorevolissime personalità ( tra le quali anche un paio di fior di reazionari e nessuno “in odore di 68”, come bizzarramente scrive Libero) ha redatto un importante report sulla questione delle sostanze stupefacenti. In esso si legge chiaro e tondo che “ la guerra globale alla droga ha fallito”.  Basti un dato:  tra il 1998 e il  2008, nel mondo il consumo  degli oppiacei è aumentato del 34,5 per cento, quello della cocaina del 27 per cento e quello dei derivati della cannabis  dell’ 8,5 per cento. Da questa constatazione, inequivocabilmente comprovata da tutte le evidenze scientifiche, muove la parte propositiva del report ,dove si suggerisce di trattare il problema delle droghe innanzitutto come “questione sanitaria, piuttosto che come “emergenza criminale”. Queste le proposte essenziali: incoraggiare i modelli di regolamentazione delle droghe per contrastare i traffici illegali; assicurare l’ accesso a diverse modalità di trattamento (come la somministrazione controllata di eroina);  abbandonare la criminalizzazione e la stigmatizzazione dei consumatori, alleggerendo le pene per i piccoli spacciatori. Già da questa essenziale sintesi, emerge  che siamo in presenza di ipotesi estremamente ragionevoli e prudenti, che intendono sperimentare una sorta di terza via tra proibizionismo e antiproibizionismo. Non ancora un progetto di legalizzazione ( tantomeno di liberalizzazione, come sciaguratamente scappa di scrivere al Foglio del 3 giugno), ma  i primi contorni di una strategia che sembra affidarsi a  due criteri fondamentali: il pragmatismo dell’ approccio concreto e anti ideologico e la tutela del tossicomane  tramite programmi  terapeutici e sociali. Qualcosa di assai diverso dalle considerazioni tutte teoriche, liberiste e “mercatiste”,  di Milton Friedman, ma anche dal sacrosanto approccio “politico” del settimanale Economist, che –ogni dieci anni- espone  le razionali virtù di un regime di legalizzazione. Col report della Global Commission siamo in presenza di un programma, sistematico e articolato, che esige –se non altro per l’ incontestabile fallimento delle strategie contrapposte - di essere seriamente sperimentato. L’articolo del Foglio dice tutto ciò con sufficiente scrupolo. Ma piazza sopra quella informazione sostanzialmente corretta, un titolo mozzafiato : “La banalità dello stupefacente. La guerra culturale alla droga è persa. Fine di uno scandalo sociale”. Così facendo l’ autore e l’ ispiratore di quel titolo collocano il consumo di sostanze  all’ interno di una sequenza micidiale e maledetta  che, partendo dal 68 (immagino) e passando per il divorzio, l’ aborto, l’ omosessualità e chi più ne ha più ne metta, giù giù fino alla Ru486, e negando l’ immanenza del peccato originale, celebra il trionfo del Relativismo Etico. E, di conseguenza, la banalizzazione del Male. Verrebbe da dire: scellerati gnostici che non siete altro! Ma, più pacatamente, c’è da chiedersi che cosa mai vi abbia preso, quale malìa si sia impadronita di voi del Foglio, per rendervi a tal punto isterici.  Lo slittamento logico segnala, infatti, un imperdonabile slittamento teologico (tanto più sorprendente proprio perché urlato in un titolo, messo a stridente cappello  di un articolo che nulla ha di isterico). Siamo, inevitabilmente, nel campo della teologia morale, ma  l’ assunto che sembra ispirare il Foglio non è tanto una concezione arcigna e disciplinare della precettistica, bensì una sua sgangherata mondanizzazione -giuridicizzazione. In altre parole, non è Hans Urs von Balthasar ma Carlo Giovanardi a tracciare il solco. Perché mai, infatti, la “banalizzazione” dovrebbe discendere fatalmente da forme di regolamentazione del mercato, per un verso e dall’ adozione di strategie sanitarie e sociali alternative a quelle oggi dominanti?  Ma davvero pensate che la riprovazione sociale del tossicomane dipenda, in via esclusiva o comunque prevalente, dall’ asprezza del regime proibizionistico e delle pene conseguenti? Ma davvero pensate che la giovannea distinzione tra errore ed errante non debba valere anche per l’ abuso di sostanze? e il conseguente biasimo morale vada riservato al consumatore e non, invece, alla patologica condizione di  dipendenza?  Insomma, “lo scandalo sociale” (così il vostro titolo)  dell’ abuso di sostanze stupefacenti è e resta tale: il suo spessore tragico, non viene in alcun modo attenuato dalle eventuali modifiche, anche radicali, al relativo impianto normativo; e tanto meno dalla differenziazione delle strategie terapeutiche e sociali nei confronti dei tossicomani. È forse vero il contrario: la riduzione del problema delle droghe a questione criminale e la trasformazione di uno “scandalo sociale” in una variabile dell’ ordine pubblico e in una specializzazione dell’ attività di itelligence e di trattamento penale finiscono, in realtà, col neutralizzare –e infine proprio col banalizzare- la dimensione drammatica della dipendenza da sostanze. La grande questione  che si scorge in controluce, quella della responsabilità individuale,  viene degradata a oggetto di coercizione  penitenziaria. Contenti voi.
Il Foglio 7 giugno 2011
Politicamente correttissimo
Isterici
Luigi Manconi
La Global  Commission on Drug Policy, composta da autorevolissime personalità ( tra le quali anche un paio di fior di reazionari e nessuno “in odore di 68”, come bizzarramente scrive Libero) ha redatto un importante report sulla questione delle sostanze stupefacenti.

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Inferno carceri Marco Pannella digiuna e chiede l’amnistia
Luigi Manconi
Accadono molte cose, di questi tempi, in Italia, e alcune assai positive. E, tuttavia, resistono questioni rimosse, che si riproducono come tabù indicibili. Prendiamo la questione del carcere. Una condizione già degradata, rischia di degenerare ulteriormente per il vuoto di potere che, fatalmente si determinerà a seguito della sostituzione del titolare del ministero della Giustizia. Ma la situazione era già irreparabilmente compromessa.
Per tre anni, il ministro Alfano, ha annunciato il varo di un mirabolante «piano carceri» che si è rivelato né più né meno che aria fritta. Basti pensare che il ministero ha rivendicato la realizzazione di duemila nuovi  posti, mentendo due volte. La prima perché non si è avuto il buon gusto di spiegare che si trattava di un ampliamento di capienza programmato dal precedente esecutivo; la seconda perché si è omesso di ricordare che quei «duemila nuovi posti» sono tutti e solo sulla carta. L’ineffabile sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati (che Dio l’abbia in gloria), a una precisa domanda, ha risposto testualmente che «beh, sì, se sono stati fatti nuovi posti, vuol dire che ci avranno messo i detenuti» (cosa in realtà non accaduta a motivo della carenza di personale).
Dunque, il quadro generale è quello noto: sovraffollamento, scadimento di tutti i servizi, emergenza sanitaria, crescita dell’autolesionismo (tra detenuti e agenti). Ma la novità, l’antichissima e sempre inedita novità, è un’altra: sta nel fatto che la politica nazionale continua a ignorare il carcere, come sempre, ma con una sorta di nuova improntitudine. Come è possibile? Come si fa a tollerare che in un ambito del nostro sistema istituzionale, in uno spazio della nostra organizzazione statuale, in una piega scura dell’assetto della nostra vita sociale, si consumino tanta violenza e tanto dolore? E perché il solo Marco Pannella sembra trovare ciò intollerabilmente scandaloso? Forse non è proprio l’unico a scandalizzarsi, ma è solo Pannella (in sciopero della fame da 46 giorni) a spiegare, con le parole e gli atti, che il sistema penitenziario è una priorità assoluta. Sia perché è il deposito ultimo di tutti gli effetti della crisi del sistema della Giustizia; sia perché, ormai da due decenni, il carcere è diventato la principale agenzia di stratificazione sociale. Ovvero lo strumento di controllo dei conflitti e delle devianze e di mediazione delle diseguaglianze tra i gruppi e le classi e, in particolare, tra inclusi ed esclusi e i tanti che oscillano tra le due condizioni. In questa situazione, Pannella pronuncia la parola impronunciabile: amnistia. Sembra qualcosa di oltraggioso ed è, niente più, che un ragionevole, ragionevolissimo, provvedimento di «salute pubblica».
l'Unità 4 giugno 2011
Inferno carceri Marco Pannella digiuna e chiede l’amnistia
Luigi Manconi
Accadono molte cose, di questi tempi, in Italia, e alcune assai positive. E, tuttavia, resistono questioni rimosse, che si riproducono come tabù indicibili. Prendiamo la questione del carcere. Una condizione già degradata, rischia di degenerare ulteriormente per il vuoto di potere che, fatalmente si determinerà a seguito della sostituzione del titolare del ministero della Giustizia. Ma la situazione era già irreparabilmente compromessa.

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Cara Bianca Berlinguer e caro Luigi Manconi

 
Politicamente correttissimo
Nightmare
A forza di ripetere l'odiosa parola "zingaropoli", la destra ha animato incubi e fantasmi
Luigi Manconi
A me, questa roba di Zingaropoli non  va proprio giù. E non perché mi spaventi l’effetto che può produrre nell’ opinione pubblica: si è dimostrato inequivocabilmente che quell’ effetto non è poi così dirompente, come alcuni sgangherati strateghi del centrodestra avevano sperato.

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Lavoro ai Fianchi
Grillo qualunquista aiuta la destra
Luigi Manconi
“Sono tutti uguali. Mangiano tutti la stessa zuppa” Beppe Grillo.
Dovevate vederlo (e l’hanno visto in tantissimi) il comico genovese mentre – la voce resa roca dalla rabbia – urlava quella frase, e altre simili, nel corso di una puntata di Annozero di qualche settimana fa. Prima e dopo quell’imbarazzante performance,  Grillo ha trovato modo di dare di “busone” a Niki Vendola e di trattare i migranti come una merce alla quale imporre dazi e barriere protezionistiche. Per questo viene da chiedermi: ma perché mai tutto ciò (Grillo e i militanti di 5 Stelle, il qualunquismo e l’antipolitica, il giustizialismo e la foia manettara…) dovrebbe riguardarmi? Io sono, come so e posso, di sinistra e quella roba mi sembra inequivocabilmente di destra. Anche le più ragionevoli contestazioni che mi si potrebbero opporre – ovvero: 1, sono giovani giovanissimi; 2, sono contro Silvio Berlusconi; 3, sono stati e alcuni ancora si dicono di sinistra - non mi scalfiscono punto. Con quella roba là non si va da nessuna parte e non ho alcun dubbio che di roba vecchia e mediocre stiamo parlando. E quando così non è, si tratta comunque di materia da manovrare con delicatezza. Pigliamo la candidatura di Luigi De Magistris. È ovvio, che se fossi un elettore napoletano correrei a perdifiato pur di votare l’ex magistrato. Ma perché mai questo dovrebbe indurmi a considerarlo un partner affidabile e “un alleato prezioso”? Lo si vota per l’ottima ragione che è meglio (o meno peggio) di Gianni Lettieri. Dovrebbe essere scontato, ma a una situazione tanto confusa da risultare inestricabile, si aggiunge il ricorso a un vocabolario politico ormai logoro e vistosamente inadeguato. Per capirci, De Magistris viene definito come un esponente della “sinistra radicale”. Ma qualunque sia il significato di tale definizione De Magistris è tutto fuorché sinistra radicale. Se proprio proprio dovessi trovare un’etichetta, lo chiamerei “estremista di centro”. È vero, infatti, che il candidato napoletano dell’IdV porta alle ultime (estreme) conseguenze alcuni valori che si dislocano più nel territorio politico-culturale del centrodestra che in quello del centrosinistra: si pensi al richiamo  costante a “legge e ordine”, all’enfasi su un’etica che tende a ridursi a moralismo, all’idea centralista, statalista e gerarchica dello Stato e del sistema delle istituzioni. A ciò De Magistris aggiunge di suo un linguaggio tonitruante e approssimativo, la difficoltà a distinguere tra alleato e avversario, la riluttanza a riconoscere i propri errori, anche quando evidenti. E, soprattutto, una concezione della giustizia, della sua amministrazione e delle sue garanzie, che nulla ha a che fare con ciò che vorrei fosse la cultura della sinistra. Detto tutto ciò, viva e sempre viva De Magistris. Comportarsi diversamente significherebbe, oggi, rinunciare alla politica. Che è esattamente quanto fanno i militanti del movimento 5 stelle, e non solo loro. Di ciò è paradigmatica proprio quell’immagine sudaticcia di Beppe Grillo, prima richiamata, così come quella dichiarazione di assoluta equidistanza tra centrodestra e centrosinistra che connota una parte dell’attuale estremismo. La politica, infatti, si fonda su alcune essenziali categorie e una, tra esse, è proprio la scelta sempre e comunque del male minore (ovvero del bene possibile). L’equidistanza è l’espressione o di una tragica irresponsabilità politica o di un artificio reazionario. Ma questo richiama un altro fondamentale tema. Quello, niente meno, di cosa sia oggi la politica e di cosa sia oggi una collocazione a sinistra. Ne parlerò nella prossima rubrica, a partire da un colloquio straordinariamente rivelatore, trasmesso qualche settimana fa nel corso di un servizio di Exit (La7). In quel filmato vengono proposte, icasticamente ritratte, due figure: la cosiddetta Nuova Politica, rappresentata da un blogger e quella Vecchia, interpretata da una giovane “rinnovatrice”, che paradossalmente si trova a illustrare la bontà delle tradizionali virtù dell’agire pubblico.
Nuova Politica: “siamo blogger venuti qua per mettere D’Alema di fronte alla verità nuda e cruda”; Vecchia Politica: “io ho fatto le primarie e la città è andata a votare. Te lo dice una persona che è del Pd che ha fatto la campagna elettorale per quelli di Sinistra e Libertà, Fassino le ha vinte e tu da cittadino hai il dovere di rispettare il fatto che sessantamila torinesi sono andati a votare alle primarie. Non è così che si fa. Venite nel partito, rimboccatevi le maniche e prendete posto. Tu in questo momento stai facendo politica come me. Io non prendo neanche un centesimo dalla politica, oggi ho fatto 400Km per lavoro, ho un contratto da metalmeccanico, mi sono laureata, son semplicemente più grande di te”;
Nuova Politica: “ma io non sono dirigente di partito”.
Teatro civile allo stato puro.
l'Unità 27 maggio 2011
Lavoro ai Fianchi
Grillo qualunquista aiuta la destra
Luigi Manconi
“Sono tutti uguali. Mangiano tutti la stessa zuppa” Beppe Grillo.
Dovevate vederlo (e l’hanno visto in tantissimi) il comico genovese mentre – la voce resa roca dalla rabbia – urlava quella frase, e altre simili, nel corso di una puntata di Annozero di qualche settimana fa.

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