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20 settembre 2012
Questa mattina, una delegazione di A Buon Diritto onlus, guidata dal presidente, onorevole professore Luigi Manconi, e composta dal Professore Stefano Anastasia, dalla dottoressa Valentina Brinis, dalla dottoressa Valentina Calderone e dalla signora Camilla Siliotti, ha presentato al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Rapporto Lampedusa non è un’isola.  Profughi e  migranti alle porte dell’Italia, curato dalla stessa Associazione. Nel corso dell’incontro sono state analizzate le diverse questioni  relative alla presenza nel nostro paese di immigrati e richiedenti asilo; e, in particolare, si è considerata la grande questione della cittadinanza, ovvero:  l’opportunità di riconoscere la cittadinanza italiana agli stranieri nati e residenti in Italia e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza agli stranieri  regolarmente soggiornanti da un periodo congruo di tempo.
Il rapporto Lampedusa non è un’isola è stato discusso, in incontri pubblici, dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, dal Capo della Polizia, Prefetto Antonio Manganelli e dal Capo della Protezione Civile Franco Gabrielli; e sarà oggetto di un convegno, la prossima settimana, che vedrà la partecipazione del ministro della Cooperazione Internazionale, Andrea Riccardi, e di numerose associazioni.
20 settembre 2012
Questa mattina, una delegazione di A Buon Diritto onlus, guidata dal presidente, onorevole professore Luigi Manconi, e composta dal Professore Stefano Anastasia, dalla dottoressa Valentina Brinis, dalla dottoressa Valentina Calderone e dalla signora Camilla Siliotti, ha presentato al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Rapporto Lampedusa non è un’isola.  Profughi e  migranti alle porte dell’Italia, curato dalla stessa Associazione. Nel corso dell’incontro sono state analizzate le diverse questioni  relative alla presenza nel nostro paese di immigrati e richiedenti asilo; e, in particolare, si è considerata la grande questione della cittadinanza, ovvero:  l’opportunità di riconoscere la cittadinanza italiana agli stranieri nati e residenti in Italia e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza agli stranieri  regolarmente soggiornanti da un periodo congruo di tempo.
Il rapporto Lampedusa non è un’isola è stato discusso, in incontri pubblici, dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, dal Capo della Polizia, Prefetto Antonio Manganelli e dal Capo della Protezione Civile Franco Gabrielli; e sarà oggetto di un convegno, la prossima settimana, che vedrà la partecipazione del ministro della Cooperazione Internazionale, Andrea Riccardi, e di numerose associazioni.

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Gentile signora/e,
ci rivolgiamo a Lei perché è una delle persone che hanno affidato il proprio testamento biologico alle nostre associazioni: "Luca Coscioni" e "A Buon diritto onlus".
Vogliamo informarLa di un'occasione in più per far valere i Suoi diritti. Infatti, Lei potrà far autenticare gratuitamente da un notaio il Suo testamento biologico martedì 25 settembre dalle 17 alle 20:30 a Roma, a Largo Argentina (vicino alla libreria Feltrinelli), per l'iniziativa "Testamento biologico in piazza". Basterà portare il modello di testamento biologico in duplice copia con una fotocopia del documento d'identità.
Sarà anche l'occasione, se lo vorrà, per firmare gli 8 referendum promossi dal Comitato Roma sì muove, tra i quali vi è proprio un quesito sul testamento biologico ( oltre ad altri sulle coppie di fatto, l’ambiente e la mobilità).
Saranno presenti con noi e Mina Welby personalità del mondo giuridico e scientifico.
La preghiamo di darci comunque una risposta (inviando una email a Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. o chiamando lo 06-689 79 286), in modo da poter organizzare al meglio l'appuntamento.
Grazie, un saluto,
Luigi Manconi
Presidente dell'Associazione "A Buon Diritto" onlus
Filomena Gallo
Segretario dell'Associazione Luca Coscioni
I sottoscrittori del testamento biologico riceveranno presto questa lettera:

Gentile signora/e,
ci rivolgiamo a Lei perché è una delle persone che hanno affidato il proprio testamento biologico alle nostre associazioni: "Luca Coscioni" e "A Buon diritto onlus".

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La solitudine digitale
Luigi Manconi
Ormai ci siamo abituati a considerare Grillo come una patologia della vita politica. Dunque, fatto salvo il mio giudizio
(che peggiore non potrebbe essere) sull’uomo e sulla sua opera, si può provare a considerare seriamente
ciò che il grillismo come febbre della democrazia riesce a comunicare.
Il caso di Giovanni  Favia (il consigliere regionale dissidente di 5 Stelle) ha rivelato impietosamente il connotato proprietario e autoritario che segna, al di là delle intenzioni e della generosità degli aderenti,  la formazione e l’organizzazione di  5 Stelle.  Lo scandalo che ne è seguito e lo smarrimento sincero di moltissimi militanti hanno indotto il Fondatore a proporre la sua ricetta per affrontare la prima vera crisi di crescita del partito. Secondo Grillo, ecco la soluzione : una piattaforma online che consenta di scegliere i candidati per le prossime elezioni politiche e di discutere e definire il programma. La proposta è piaciuta a molti e sembra aver messo a tacere le contestazioni interne, in quanto rappresenterebbe la soluzione giusta per dare nuove energie e regole certe al sistema di democrazia interna di 5 Stelle. Che si tratti di una novità è certo, ma il problema rischia solo di essere spostato in avanti. In altre parole: chi gestirà quella piattaforma, chi ne detterà le norme, e ancora prima, chi vi potrà accedere? Tutte domande serissime che tuttavia , proprio mentre le formulo, mi appaiono come “successive” :  che vengono dopo, cioè, una riflessione precedente, e  che non può essere elusa o sottovaluta, sulla qualità della politica online. Qui sta il nodo essenziale. Si è diffusa ormai l’opinione, anche in ambienti insospettabili, che la politica digitale sia comunque una forma non solo innovativa, ma anche più efficace e persino più “democratica” di quella tradizionale. È proprio ciò che contesto. Se pure quella piattaforma, proposta da Grillo, funzionasse al meglio e  con le migliori garanzie, una simile attività certificherebbe la scomparsa – verrebbe da dire l’annichilimento - di quello che è stato uno dei fondamenti essenziali della politica classica. Ovvero il corpo. La politica, in tutte le sue varianti, in tutte le sue ascendenze ideologiche e in tutte le sue articolazioni pratiche, si è basata sul ruolo decisivo svolto dal corpo umano nella vita sociale e nelle relazioni pubbliche. Il corpo violentato degli schiavi, ma anche l’habeas  corpus a tutela dell’intangibilità dell’individuo contro il dispotismo del sovrano ; le braccia sfruttate della forza lavoro, ma anche la dignità del genere sessuale  femminile ;  l’antico motto “una testa un voto” è la centralità crescente, in tutti i sistemi democratici, delle tematiche legate alla fisicità (interruzione volontaria della gravidanza e testamento biologico, libertà di cura e pari dignità delle minoranze sessuali) :  tutta la politica, fino a oggi, ha trovato nel corpo la sua origine e il suo fine. E su questo è stata scandita, negli ultimi due secoli, l’attività collettiva che aveva come posta in gioco il potere politico. La politica come l’abbiamo conosciuta è stata, ed è,  incontro scambio relazione. Comunicazione diretta e faccia a faccia. Presenza comune in luoghi fisici: sezioni e  circoli, incontri e manifestazioni, convegni e comizi e cortei. È solo la presenza in uno spazio condiviso, dove si mettono in comune non solo parole, ma anche emozioni e  sentimenti (compresi quelli negativi), che consente quel farsi della politica consistente in un percorso collettivo, verso un obiettivo che si scopre essere di molti. È questa la radice della politica che, poi, si articolerà su altri piani, in altre sedi, nei luoghi della rappresentanza. Ma  la base primaria e costitutiva resta quella :  lo spazio della reciproca interferenza e della polemica aspra, dove si opera per persuadere e portare dalla propria parte; e dove il confronto è fatto di argomenti a favore e di argomenti  contro, di battaglia per l’affermazione di una posizione o di un’altra, di lotta e di compromesso. E poi, ancora, di una nuova lotta e di un nuovo compromesso.  Tutto ciò richiede, appunto, la prossimità: lo stare insieme per un determinato periodo di tempo, anche breve, ma necessario a costruire la comunanza di intenti, attraverso il conflitto tra opzioni diverse e la selezione di obiettivi condivisi. Insomma la politica, quella di cui parlo, esige la materialità e la socialità di esperienze vissute insieme e di una fisicità che si esprime nel guardarsi e nell’interloquire, nell’incontrarsi e nel muoversi insieme. Politica, in estrema sintesi, è appunto quel muoversi insieme, dove i corpi si affiancano e fanno energia collettiva e forza comune.
Detto tutto ciò è palese e incontestabile che quella politica ha prodotto anche mostri (burocrazia e autoritarismo, verticismo e carrierismo, corruzione e alienazione …) : ed è oggi in rovinosa, e, secondo molti, irreversibile crisi. A questo punto, la scelta è netta. O si lavora pazientemente e tenacemente per rinnovare in profondità la politica classica, oppure si abbandona questa politica e si sceglie decisamente quella online. Dico subito che continuo (spes contra spem) a nutrire una qualche residua fiducia nella prima, tanto più se riesce ad acquisire e a far fruttare il meglio che la seconda (quella online) propone.     Ma affidarsi, come tanti sono intenzionati a fare, ad una piattaforma digitale, investendo interamente in essa le proprie risorse, mi sembra una follia. E mi spiego. La politica online tende - come dice ancora Favia -   a  “una democrazia liquida dove i cittadini possano decidere continuamente”.   Ma quest’ultima, anche se regolata da criteri democratici, oltre ad apparire come un oggetto misterioso  - qualcosa di esoterico, che sostituisce all’autorità del Capo la sovranità della Macchina Intelligente – finisce col  cancellare totalmente il corpo. In altre parole,  la politica digitale si fonda su una moltitudine di individui, isolati ciascuno nella propria postazione, sempre connessi e sempre irrimediabilmente soli. E davvero solitaria è questa nuova forma di “militanza”, vissuta interamente dentro la dimensione del proprio PC: la sola compagnia, e la sola compagnia politica, rischia di essere il nostro volto riflesso sullo schermo.
l'Unità 19 settembre 2012
La solitudine digitale
Luigi Manconi
Ormai ci siamo abituati a considerare Grillo come una patologia della vita politica. Dunque, fatto salvo il mio giudizio
(che peggiore non potrebbe essere) sull’uomo e sulla sua opera, si può provare a considerare seriamente ciò che il grillismo come febbre della democrazia riesce a comunicare.

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Grillo e il falso mito
della politica online
Luigi Manconi
“Cinque anni di una vita annullata per costruire un sogno”: così Giovanni Favia, consigliere regionale di 5 Stelle, racconta la crisi della sua esperienza politica a Lilli Gruber, due sere fa, nel corso di Otto e mezzo (La 7). La frase è estremamente eloquente, e ancora più lo è  la sua tonalità emotiva. Ma c’è in quelle parole un’enfasi solenne e un po’ eroicistica, che risulta la prova provata di un gigantesco equivoco. È come se quel consigliere regionale, così simpatico e gradevole, pensasse molto seriamente di essere il primo, o uno dei pochissimi, ad aver conosciuto le fatiche e i sacrifici che la militanza politica comporta. Qui emerge un nodo cruciale: 5 Stelle e altri recenti movimenti si comportano come se la politica – quella autentica e “in carne e ossa” – iniziasse con loro. E che, in ogni caso, il fatto di dedicarvisi fosse già esso un evento enormemente innovativo, tanto più perché disinteressato e generoso. Le cose non stanno proprio così. Anche adesso, nel momento in cui la politica conosce il massimo discredito, i partiti patiscono la più cocente disaffezione e la partecipazione sembra ridursi al minimo, anche adesso la militanza politica sopravvive: conosce mille sconfitte ma anche qualche vittoria, arretra e tuttavia conserva una certa vitalità. Tra i radicali, sicuramente, e con inalterata passione e lena, ma anche in alcune aree del Pd e di Sinistra Ecologia e Libertà, in segmenti della destra (persino in quelli confluiti nel Pdl) e qui e là, a macchia di leopardo. E mi riferisco alla politica intesa in senso classico: quella basata sulla prossimità. Ovvero sulla possibilità di incontrarsi nello stesso luogo, per comunicare direttamente e faccia a faccia, per confrontare opinioni e battersi per il prevalere dell’una sull’altra, per mettere insieme le forze e perseguire un obiettivo. Insomma, per mobilitare, aggregare persone, incoraggiare gli incerti, persuadere i critici, galvanizzare i già convinti. Ciò si fa sempre meno, certamente, ma lo si continua a fare: in circoli e sezioni, in luoghi di lavoro, nel corso di comizi e di manifestazioni. E a produrre tutto ciò sono, appunto, i militanti politici. E una certa quota tra coloro che  rivestono ruoli pubblici. Lo stesso Favia ha rivendicato il fatto che  - e anche in questo sembrava fosse l’unico al mondo – trattenga per sé solo 2700 euro dei 9000 dell’indennità percepita dai consiglieri regionali dell’Emilia Romagna. Si tratta di una scelta meritoria ma va ricordato che non solo il Pci e il Psi ma anche la Dc e altri ancora, e alcune forze politiche della seconda repubblica prevedevano che una quota degli emolumenti di parlamentari e consiglieri fosse destinata al rispettivo partito. E per alcuni, la regola vale tuttora. Non c’è dubbio, tuttavia, che quella forma tradizionale della politica e quella forma tradizionale del partito attraversino oggi, una crisi profonda, come mai nella storia dell’Italia repubblicana. Ed è proprio per questo che il “caso Favia” costituisce un segnale estremamente significativo. a) perché rappresenta un ulteriore fattore di disgregazione della rappresentanza, anche nelle sue più recenti espressioni; b) perché certifica l’omologarsi della sedicente “nuova politica” a quella tradizionale; c) perchè, infine, offre la prova inconfutabile della inadeguatezza dei nuovi strumenti di partecipazione (quelli online). Va da sé: la vicenda del consigliere regionale è, in primo luogo, l’effetto inevitabile, e fisiologico, di una crescita così rapida e, in qualche caso travolgente, del movimento promosso da Beppe Grillo. Insomma, come quegli adolescenti che, da una stagione all’altra (o da un giorno all’altro), si sviluppano in maniera sorprendente: crescita abnorme degli arti  ed esplosione dell’acne. Ma le dinamiche e i linguaggi che questa crisi di 5 Stelle fa emergere sono davvero interessanti: come si diceva, riproducono mimeticamente tutto, ma proprio tutto, l’apparato culturale e politico dei conflitti interni ai partiti tradizionali. Ovvero la doppia verità (quella che si dice in pubblico e quella dei colloqui riservati); i riti della condanna e dell’isolamento e, specularmente, quelli dell’autocritica, della riparazione e dell’espiazione; le accuse di slealtà e di “intelligenza col nemico” (il Pd, in questo caso) e le ricostruzioni tanto minuziose quanto sgangherate di congiure e complotti. E, ancora,infiltrati e sicari, oscuri disegni e parentele imbarazzanti, sabotaggi e tradimenti. A chi giova e cui prodest. E così, all’istante, sulla discussione interna a 5 Stelle, sui messaggi e sui post, sui forum e sulle mailing list, si abbatte il clima tetro, che sempre domina la politica, quando il confronto si fa scontro senza quartiere. Tutto ciò che prima era arioso e fresco, come le “nuove forme di democrazia e partecipazione”, diventa cupo quanto l’atmosfera dell’hotel Lux di via Gorki a Mosca, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Certo che esagero, lo so bene. Ma è altrettanto certo che questo incidente di percorso nella trionfale crescita del Movimento 5 stelle ha funzionato da detonatore. Ha rivelato (anche qui!) una concezione proprietaria del partito, da parte di chi ne è stato indubbiamente il fondatore e ne è, altrettanto indubbiamente, il brand e l’icona, il leader e il vessillo. E, poi, una gerarchia interna la cui rigidità dispotica si giova, per confermarsi e rafforzarsi, dell’assenza o del carattere informale di ogni altro organismo di dibattito e di direzione. La partecipazione, ma anche il controllo da parte dei cittadini, nei confronti del partito (5 Stelle, in questo caso) si affidano a meccanismi così generici da risultare decisamente indecifrabili: “una democrazia liquida dove i cittadini possano decidere continuamente” (ancora Favia). A completare ciò, quanto prima si richiamava: l’esaltazione della politica online. Alla crisi drammatica delle forme della rappresentanza e dei partiti, con tutto ciò che ha comportato (chiusura delle sedi locali, esaurirsi del rapporto con il territorio, mancato rinnovamento dei gruppi dirigenti…) si è pensato di rispondere con la politica digitale: e sono stati molti a leggere in essa connotati innovativi, capaci addirittura di rigenerare quella stessa politica. Ma, nel migliore dei casi, quella online è un gracile surrogato della politica classica. E la politica, ieri come oggi e  – credo – come domani, si fonda sul legame sociale. E questo nasce dalla relazione diretta tra le persone, dagli scambi e dai rapporti, da sentimenti comuni e passioni condivise. Tutto ciò può, certo, circolare nella rete ma rischia costantemente la sterilità o la futilità se lì resta. È vero: oggi non c’è tempo per andare in sezione e la sezione può risultare ostile o perlomeno sgradevole (o chiusa da tempo). Ma centomila click sul web, sotto una petizione o per un obiettivo comune, contro un bersaglio o per una buona causa, sono centomila click. Esercizio gratificante finchè non diventa frustrazione, politica liofilizzata e immateriale che non contribuisce all’autodeterminazione; azione che si vorrebbe condivisa e pubblica e che si affida a tante solitudini e a tante postazioni, tutte collegate tra loro eppure lontanissime. In altre parole, manca totalmente, in questa che si definisce politica, il corpo degli individui e il corpo sociale dell’azione collettiva. E quando manca il corpo, è fatale che manchi il cuore.
12 settembre 2012 il Messaggero
Luigi Manconi
“Cinque anni di una vita annullata per costruire un sogno”: così Giovanni Favia, consigliere regionale di 5 Stelle, racconta la crisi della sua esperienza politica a Lilli Gruber, due sere fa, nel corso di Otto e mezzo (La 7).

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Giovedì 27 settembre ore 18 Associazione Civita, Piazza Venezia 11
Lampedusa non è un'isola
Domande al Ministro Andrea Riccardi

 
Tabù
La funzione civilizzatrice del politically correct spiegata ai foglianti da un ipovedente
Luigi Manconi
Parto dalla fine e da un esempio che può apparire troppo brutale (e che rischia di offendere qualcuno). Mi spiego. È possibile che l’asperrima lotta contro il “politicamente corretto”, condotta dal Foglio, sia riassumibile in una frase di Camillo Langone, ricordata da Massimo Bordin nella sua formidabile Stampa e regime (Radio radicale, tutti i giorni, ore 7.35). Langone, nel riportare il colloquio con un cameriere che proponeva un vino del Cile avrebbe scritto : “Di cileno, apprezziamo solo Augusto Pinochet”. La battuta è quella che è : non richiama nemmeno Ric e Gian, che discendono da una scuola dell’avanspettacolo di tutto rispetto, ma Umberto Smaila, per il quale rintracciare un qualunque canone comico è impresa ardua. E, tuttavia, quella frase è rivelatrice : il pericolo, infatti, è che l’intera mobilitazione ideologica e culturale scatenata contro il politically correct, si riduca a un gioco di parole piccolo così o, nel migliore dei casi, a una facezia estetica. Come quando, con malcelato compiacimento, si scrive “ negri” o “finocchi”. Un mediocre cachinno che, evidentemente, diverte qualcuno. Ma se a questo si limitasse il senso delle Guerre Culturali che il Foglio dice di condurre da “diciassette anni almeno”, stiamo freschi. Riconosco volentieri che non è così e che, dietro, c’è altro. C’è un’ interpretazione del politicamente corretto – opinabile ma seria - quale categoria descrittiva delle opinioni pubbliche delle società democratiche. In proposito, sul Foglio del 5 Settembre Giuliano Ferrara cita un’ efficace formulazione di Carlo Galli: . Contro queste culture politiche,  secondo Galli, si manifesta . Il Foglio si ritiene espressione (e avanguardia in Italia) di quel “bisogno”. Ferrara, poi, ha la squisitezza di dedicarmi “specialmente” quella interpretazione di Galli, ritenendo che io -invece- consideri <>. Niente affatto . Condivido ciò che scrive Galli e penso che quanto viene definito “politicamente corretto” sia, in realtà, una delle culture (non necessariamente “dominanti”) che informa i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. In effetti, il politicamente corretto, nel linguaggio corrente ha assunto un duplice significato: definisce, sì, quella “cultura del piagnisteo” denunciata da Robert Hughes ma più propriamente dovrebbe esser riferito a quell’insieme di valori e di parole conseguenti, di categorie e di atti che qualificano un’idea di società e di relazioni tra i gruppi e gli individui, rispettosa della dignità di tutti e volta al superamento, per quanto possibile, di diseguaglianze e ingiustizie. L’errore, davvero micidiale, che compiono i neo reazionari è quello di confondere le due accezioni della formula e di indirizzare gran parte dei loro strali contro le parole “del piagnisteo”, che – in effetti – spesso possono essere  vuote o ridicole. E così, da mezzo secolo, ci tocca leggere ironie (immaginatevi quanto sulfuree) contro la scelta di definire operatori ecologici gli spazzini. Ma proprio questo, che sembra l’esempio più criticabile di una sorta di ipocrita pudicizia linguistica, può anche essere il più istruttivo: non vi piace “operatore ecologico”? trovate un altro termine. Ma non si può ignorare che: a) spazzino ha assunto nel linguaggio quotidiano un senso comunque spregiativo; b) il diritto a “chiamarsi” (darsi il nome che si preferisce, scegliere il proprio appellativo) è una premessa essenziale della tutela dell’identità-dignità. E fin qui siamo, ancora, nell’ambito linguistico. Esso è importante proprio perché a quelle parole corrispondono fatti concreti e condizioni materiali. E c’è il serio sospetto che una definizione negativa, o comunque non rispettosa, possa alimentare un atteggiamento negativo, o comunque non rispettoso. C’è poi, la questione del tabù. Esiste un tabù a proposito degli ebrei? Se quel tabù costituisce un’ interdizione morale verso procedure di stereotipizzazione e stigmatizzazione degli ebrei, è cosa buona. Se quel tabù significasse censura nei confronti della possibilità di criticare questo o quell’ebreo, o che so? la politica dello stato di Israele, quell’interdizione sarebbe ingiusta. Mi rendo conto, tuttavia, che siamo ancora alle premesse e che la sostanza vera –  come valutare quel “politicamente corretto” che corrisponde a un livello di civilizzazione democratica delle opinioni pubbliche – va ancora trattata. Lo  farò, ma intanto espongo spudoratamente il mio caso personale : sono, sotto il profilo clinico, un ipo-vedente ai minimi termini. In altre parole, un quasi - cieco. Le risorse e i privilegi di cui godo rendono assai meno intollerabile il mio stato ed è per me pressoché insignificante il termine utilizzato per definire la mia condizione. Sarebbe lo stesso se non godessi di quelle risorse e di quei privilegi?
il Foglio 11 settembre 2012
Tabù
La funzione civilizzatrice del politically correct spiegata ai foglianti da un ipovedente
Luigi Manconi
Parto dalla fine e da un esempio che può apparire troppo brutale (e che rischia di offendere qualcuno). Mi spiego. È possibile che l’asperrima lotta contro il “politicamente corretto”, condotta dal Foglio, sia riassumibile in una frase di Camillo Langone, ricordata da Massimo Bordin nella sua formidabile Stampa e regime (Radio radicale, tutti i giorni, ore 7.35). Langone, nel riportare il colloquio con un cameriere che proponeva un vino del Cile avrebbe scritto : “Di cileno, apprezziamo solo Augusto Pinochet”. La battuta è quella che è : non richiama nemmeno Ric e Gian, che discendono da una scuola dell’avanspettacolo di tutto rispetto, ma Umberto Smaila, per il quale rintracciare un qualunque canone comico è impresa ardua. E, tuttavia, quella frase è rivelatrice : il pericolo, infatti, è che l’intera mobilitazione ideologica e culturale scatenata contro il politically correct, si riduca a un gioco di parole piccolo così o, nel migliore dei casi, a una facezia estetica. Come quando, con malcelato compiacimento, si scrive “ negri” o “finocchi”. Un mediocre cachinno che, evidentemente, diverte qualcuno. Ma se a questo si limitasse il senso delle Guerre Culturali che il Foglio dice di condurre da “diciassette anni almeno”, stiamo freschi. Riconosco volentieri che non è così e che, dietro, c’è altro. C’è un’ interpretazione del politicamente corretto – opinabile ma seria - quale categoria descrittiva delle opinioni pubbliche delle società democratiche. In proposito, sul Foglio del 5 Settembre Giuliano Ferrara cita un’ efficace formulazione di Carlo Galli:  ”La riflessione sulla politica - per quanto differenziata in scuole rivali - ha insomma davvero elaborato il politicamente corretto, e anche il tabù, l’impensato e l’impensabile: è la logica stessa delle culture politiche dominanti,liberali o democratiche, a determinarli ”. Contro queste culture politiche,  secondo Galli, si manifesta  “il bisogno – critico, liberatorio, espressivo – di sottrarre la riflessione filosofico-politica all’ipoteca liberale e liberal “. Il Foglio si ritiene espressione (e avanguardia in Italia) di quel “bisogno”. Ferrara, poi, ha la squisitezza di dedicarmi “specialmente” quella interpretazione di Galli, ritenendo che io -invece- consideri il politicamente corretto come un innocente e compassionevole vezzo linguistico. Niente affatto . Condivido ciò che scrive Galli e penso che quanto viene definito “politicamente corretto” sia, in realtà, una delle culture (non necessariamente “dominanti”) che informa i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. In effetti, il politicamente corretto, nel linguaggio corrente ha assunto un duplice significato: definisce, sì, quella “cultura del piagnisteo” denunciata da Robert Hughes ma più propriamente dovrebbe esser riferito a quell’insieme di valori e di parole conseguenti, di categorie e di atti che qualificano un’idea di società e di relazioni tra i gruppi e gli individui, rispettosa della dignità di tutti e volta al superamento, per quanto possibile, di diseguaglianze e ingiustizie. L’errore, davvero micidiale, che compiono i neo reazionari è quello di confondere le due accezioni della formula e di indirizzare gran parte dei loro strali contro le parole “del piagnisteo”, che – in effetti – spesso possono essere  vuote o ridicole. E così, da mezzo secolo, ci tocca leggere ironie (immaginatevi quanto sulfuree) contro la scelta di definire operatori ecologici gli spazzini. Ma proprio questo, che sembra l’esempio più criticabile di una sorta di ipocrita pudicizia linguistica, può anche essere il più istruttivo: non vi piace “operatore ecologico”? trovate un altro termine. Ma non si può ignorare che: a) spazzino ha assunto nel linguaggio quotidiano un senso comunque spregiativo; b) il diritto a “chiamarsi” (darsi il nome che si preferisce, scegliere il proprio appellativo) è una premessa essenziale della tutela dell’identità-dignità. E fin qui siamo, ancora, nell’ambito linguistico. Esso è importante proprio perché a quelle parole corrispondono fatti concreti e condizioni materiali. E c’è il serio sospetto che una definizione negativa, o comunque non rispettosa, possa alimentare un atteggiamento negativo, o comunque non rispettoso. C’è poi, la questione del tabù. Esiste un tabù a proposito degli ebrei? Se quel tabù costituisce un’ interdizione morale verso procedure di stereotipizzazione e stigmatizzazione degli ebrei, è cosa buona. Se quel tabù significasse censura nei confronti della possibilità di criticare questo o quell’ebreo, o che so? la politica dello stato di Israele, quell’interdizione sarebbe ingiusta. Mi rendo conto, tuttavia, che siamo ancora alle premesse e che la sostanza vera –  come valutare quel “politicamente corretto” che corrisponde a un livello di civilizzazione democratica delle opinioni pubbliche – va ancora trattata. Lo  farò, ma intanto espongo spudoratamente il mio caso personale : sono, sotto il profilo clinico, un ipo-vedente ai minimi termini. In altre parole, un quasi - cieco. Le risorse e i privilegi di cui godo rendono assai meno intollerabile il mio stato ed è per me pressoché insignificante il termine utilizzato per definire la mia condizione. Sarebbe lo stesso se non godessi di quelle risorse e di quei privilegi?
il Foglio 11 settembre 2012
 
C’è una sinistra che fa la destra
Luigi Manconi
L’Unità 7 settembre 2012
Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pierluigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo  individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.
Quand’ero piccino e movimentista e scostumato, fui tra coloro che, in una contrapposizione assai aspra col Pci, ricevettero da quel partito l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Fu un’esperienza bruciante all’interno di una polemica politica condotta fino alle estreme conseguenze, da una parte e dall’altra. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto. E tuttavia la nostra contestazione nei confronti della politica del Pci, e la rappresaglia verbale che produceva, pure durissima, risultava comunque “interna” allo stesso campo. La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel nelle sue espressioni più mature, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come, le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Un episodio, cioè, del classico scontro tra estremismo e riformismo. Oggi il quadro mi sembra totalmente diverso. Se dunque capisco la ferita politica che quel termine produce, e personalmente fatico a usarlo nei confronti di altri,  sono tentato di ricorrervi nell’analisi di quel linguaggio scellerato e dalla mentalità da cui deriva.
Il florilegio di aggettivi e sostantivi e di formule e di frasi che Grillo e Antonio Di Pietro, molti protagonisti e una moltitudine di anonimi del web offrono quotidianamente, ne è testimonianza incontrovertibile. Non tutti, indubbiamente, ricorrono alla medesima prosa, ma il leader dell’Italia dei Valori e quello di 5 Stelle, su un tema cruciale come quello dell’immigrazione – ed è solo un esempio - hanno detto cose da fare rizzare i capelli in testa.
Ma la questione è più profonda ancora: di ispirazione fascistica è una certa struttura mentale che quel linguaggio, nelle sue espressioni aggressive e nei suoi accenti di disprezzo e odio, rivela. E tuttavia sarebbe assai ingiusto affastellare la varietà di forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra. Sotto questa luce, il caso più interessante è rappresentato dal Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Antonio Padellaro, già direttore dell’Unità, è uomo limpidamente di sinistra per storia e cultura. Di sinistra, d’altro canto, sono numerosi redattori e di sinistra è una parte significativa dei lettori. Tuttavia ciò che emerge nitidamente è che l’egemonia culturale che orienta il quotidiano e la sua immagine, i suoi titoli e i suoi messaggi, è di destra. E qui, per evitare equivoci, chiamo destra l’insieme di connotati culturali e politici che definiscono, da due secoli a questa parte, uno dei due campi in cui si divide il sistema politico. Anche a voler essere prudenti, il minimo che si possa dire è che, in ogni caso, l’egemonia culturale che orienta il Fatto non è di sinistra. So bene che, a questo punto, sembra impossibile sottrarsi all’eterno quesito su cosa sia destra e cosa sia sinistra, ma – appunto per questo – preferisco esprimermi in negativo, indicando ciò che certamente “non è di sinistra”. E prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Fatto del 5 aprile scorso: “In un paese di ladri”. Sembra un titolo come tanti, ma è invece straordinariamente significativo del ragionamento che qui intendo fare.  Innanzitutto perché la sacrosanta lotta alla corruzione diventa, con quelle cinque parole, non solo il punto di vista del quotidiano, ma anche qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Come si fa, infatti, a definire l’Italia, ma anche solo il suo sistema politico e istituzionale come un universo di mascalzoni? Qui non si esprime solo il qualunquismo che fa di tutta l’erba un fascio, che azzera le differenze, che livella le biografie individuali e le storie collettive; qui si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, dove non c’è spazio alcuno, non dico per l’onestà dei singoli, ma nemmeno per la libera esistenza dei singoli stessi, per le loro soggettività e le loro esperienze. C’è un blocco unico, che annulla le persone e l’autonomia individuale e la capacità di autodeterminazione e i percorsi di emancipazione collettiva. Siamo di fronte o all’idea di un’unica e sola e omogenea struttura dispotica – e va dimostrato che l’Italia attuale sia questo – o alla proiezione paranoide di una concezione autoritaria e disperata della vita sociale. In entrambi i casi, simili letture della società italiana contemporanea nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra: di qualunque sinistra. La ragione è semplice: in quella rappresentazione, cupa e irredimibile, risulta azzerata – o affievolita fino al punto di non potersi cogliere – qualunque polarità che si richiami al conflitto tra destra e sinistra: uguaglianza/gerarchia; giustizia/ingiustizia; individuo/Stato; libertà/autorità. In luogo di queste coppie di concetti, vengono esaltate altre polarità: giovani/vecchi; legalità/illegalità; popolo/élites; antipolitica/politica. Si tratta di polarità tutte legittime, spesso motivate e comunque assai sentite, ma che rimandano a un campo diverso da quello della sinistra nelle sue molte articolazioni storiche e nelle sue differenti espressioni culturali. E che risalgono, tutte, agli ultimi due decenni, e a quella Seconda Repubblica che, appunto, avrebbe fatto evaporare il discrimine tra destra e sinistra. Trovo questa lettura fallace, e per più ragioni. In primo luogo perché il tramonto della Seconda  Repubblica e la crisi economico-finanziaria ripropongono con forza un conflitto tra due campi e due culture che, comunque rinnovati e persino qualunque nome assumano, rimandano sempre alla Destra e alla Sinistra. Come, per altro, accade in tutti i paesi europei. Ma non è solo la necessità di misurarsi su un tema, quello del lavoro, che inevitabilmente richiama le antiche categorie, a motivare la definizione “di destra” per l’agitazione populista e demagogica in corso.
Si pensi alla questione del giustizialismo: quel titolo prima citato (“In un paese di ladri”) è il punto di arrivo di un’intera concezione. Se tutta la vita sociale viene vista attraverso l’ottica della fattispecie penale – il furto, la corruzione – è inevitabile che questa si porti appresso tutte le carabattole di tic e arnesi, di pensieri e di invettive conseguenti. Se viviamo “in un paese di ladri”, è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: “in galera”. Ed è conseguente, ancora, che la preoccupazione di una presunta “difesa sociale” prevalga sempre sulla tutela dei diritti individuali. E che il programma politico della sinistra debba essere quello del “populismo giudiziario”, dove i pubblici ministeri diventano i leader della mobilitazione emotivo-moralistica e i cronisti giudiziari assumono il ruolo di autorevoli opinion leader. Ma gli effetti possono essere ancora più devastanti: si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali. Attraverso il buco della serratura si guarda la vita: e, dunque, attraverso lo spioncino della cella si crede di conoscere “la vera natura” della persona – comunque colpevole e reclusa – e non, invece, l’intollerabile sofferenza della perdita di libertà e dignità. Ne deriva inevitabilmente che la grande questione dei diritti umani e delle garanzie individuali – questa sì propria di una sinistra di alto profilo politico e morale – risulti totalmente ignorata. Così come, a quello sguardo dal buco della serratura e dallo spioncino della cella, sfuggono altre decisive questioni: il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile. Vale anche per tutte le altre crisi industriali: è il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia e degli operai in carne e ossa, ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via. Il giustizialismo, in questa visione tetra e nevrotica, non è solo una torsione nell’amministrazione della giustizia: è una patologia della politica.
C’è una sinistra che fa la destra
Luigi Manconi
L’Unità 7 settembre 2012

Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pierluigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo  individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.

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Politicamente correttissimo
L'Italia dei livori
Luigi Manconi
Continuo a essere morbosamente affascinato da ciò che cova nel cuore profondo della nostra società.

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NON DIMENTICHIAMO
sabato 4 agosto 2012 - ore 20
Piazza V. Emanuele - Vallo della Lucania (Sa)
 
A PROPOSITO DI GIUSTIZIALISMO
Luigi Manconi

1. Uno come me, nell’ascoltare la Grande Narrazione della Trattativa mafia-Stato, non può restare indifferente. L’effetto di suggestione che quel racconto trasmette è insinuante e seducente: difficile, dunque, resistergli. In Italia le teorie del complotto sono proiezioni paranoiche di una materia reale e fattuale più spessa e torbida di quanto lo sia in altri paesi.

2. Credo di aver capito, infine, perché Roberto Saviano scriva così bene e perché Marco Travaglio scriva così male. Sia chiaro: la scrittura di quest’ultimo ha un enorme successo e, dunque, piace, piace tantissimo. Innanzitutto perché è sommamente corriva, blandisce i più consolidati stereotipi e titilla quel senso comune che (sintetizzo brutalmente Antonio Gramsci) è la negazione del buon senso. Insomma, rassicura e conforta.

3. Non ho conosciuto abbastanza Loris D’Ambrosio per poterne parlare oggi in maniera adeguata.  Pochi contatti a proposito di alcune questioni complesse delle quali mi è capitato di dovermi occupare.  Ciò  che emergeva, anche nel corso di queste rare frequentazioni, era un tratto di assoluta discrezione e di massima riservatezza, tale da far apparire davvero incongrua l’immagine di un uomo che prevarica, deroga ai suoi compiti, invade competenze altrui (come qualcuno ha voluto far intendere).
 
Lettera in ricordo di Pasquale Cavaliere
 
Emergenza senza fine
Luigi Manconi
Giusto un anno fa, Giorgio Napolitano, nel suo intervento a un convegno promosso dai Radicali, definiva le condizioni del sistema penitenziario italiano “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Tanto è rimasto inascoltato il grido di allarme del Capo dello Stato che, a distanza di 12 mesi, quell’ “urgenza” è diventata, se possibile, ancora più drammatica. E i due suicidi nelle carceri di Lecce e Roma, nel corso delle ultime ore, ne sono la più crudele conferma. Fosse accaduta d’inverno, non è che questa tragedia sarebbe stata meno tragedia.

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