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L’Islam in Italia, Anna Maria Artoni

Libertà religiosa, diritti, doveri

Intervento di Anna Maria Artoni, Presidente Giovani Imprenditori Confindustria al Convegno organizzato da A Buon Diritto e Open Society Institute

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[11/02/03]

Autorità, Signore e signori, amici

mi fa particolarmente piacere partecipare a questo Convegno, perché la situazione dell’Islam in Italia rappresenta uno dei settori più delicati nei quali esercitare quella strategia dell’inclusione che i Giovani Imprenditori hanno adottato come linea-guida delle loro analisi e proposte.

Nel giugno dello scorso anno, in occasione del Convegno di Santa Margherita Ligure, abbiamo lanciato le nostre proposte per vincere la sfida della governance dell’immigrazione nel nostro Paese. Siamo convinti infatti che si tratti di un fenomeno ancora sottovalutato in Italia, rispetto al quale è diffusa la tentazione di alzare semplicemente barriere, pregiudicando il futuro in nome di un presente apparentemente più tranquillo. Considero dunque molto importante l’approccio al tema immigrazione proposto da chi ha organizzato il Convegno di oggi. La tutela delle libertà fondamentali, tra le quali quella religiosa, e il rispetto di un nucleo fondamentale di diritti e di doveri rappresentano le linee-guida di una strategia basata sull’inclusione, che crei il ciclo virtuoso indispensabile per governare il fenomeno immigrazione. In questa partita l’impresa può e deve svolgere un ruolo fondamentale, in parallelo alle politiche pubbliche.

Ho letto con interesse il documento prodotto dall’Open Society Institute sul monitoraggio della protezione delle minoranze nell’Unione europea e, in particolare, sulle condizioni della minoranza di fede musulmana in Italia.
Molti sono gli aspetti sui quali vorrei soffermarmi: dati e osservazioni di grande rilievo, di cui si parla troppo poco e spesso in chiave ideologica. Ma poiché la comunità musulmana rappresenta la gran parte degli immigrati che vivono in Italia, cercherò di svolgere un ragionamento più ampio sui nodi critici della gestione del fenomeno migratorio del nostro Paese.

Il rapporto che stiamo commentando fornisce un supporto scientifico, con dovizia di particolari, a quella che per molti di noi è una sensazione quotidiana. E’ molto concreto il pericolo che il rapporto tra italiani e immigrati sia falsato dal pregiudizio. Musulmano, ai nostri occhi, è divenuto sinonimo di immigrato, che a sua volta significa spesso minaccia. Lo dimostra il “battage” compiuto, soprattutto negli scorsi anni, da alcuni mezzi di informazione con vere e proprie campagne allarmistiche anti-immigrati. Quando poi queste campagne divengono oggetto di strumentalizzazione politica, strumento per conquistare voti diffondendo paure irrazionali, la tattica politica di oggi rischia seriamente di compromettere la civile e pacifica convivenza di domani.
La spirale del pregiudizio va interrotta al più presto. Bisogna spezzare la sindrome dell’assedio. Come Giovani Imprenditori crediamo con convinzione nelle parole di Seneca, che diceva: “Se vuoi che qualcuno ti sia amico, trattalo da amico”. Ed è per questo che ci stiamo battendo affinché l’Italia diventi un Paese all’avanguardia dal punto di vista della gestione della multiculturalità. L’Italia, anche grazie alla tradizionale ospitalità e capacità d’adattamento dei suoi abitanti, è in grado oggi di lanciare un modello mediterraneo dell’incontro tra etnie e religioni diverse.
E’ una scelta obbligata, in considerazione della nostra collocazione geografica, degli scenari delle migrazioni internazionali nei prossimi anni, dei nostri bisogni demografici ed economici.

Nel nostro Paese sta crescendo in modo esponenziale il ‘bisogno demografico di immigrati. I Paesi europei sono tra i più vecchi al mondo e tra questi il primo posto spetta proprio all’Italia, dove già oggi il 24,5 per cento della popolazione è costituito da ultrassessantenni. Inoltre è particolarmente alto- e crescerà rapidamente nei prossimi anni- l’indice di dipendenza degli anziani dalla popolazione attiva.
A determinare questa inversione della piramide demografica, in Italia, è- prima ancora che il rapido allungamento della vita media- il crollo della natalità degli ultimi decenni e quindi, negli ultimi anni, della popolazione in età lavorativa. Nei prossimi venti anni, secondo Golini, i giovani di età compresa tra i 20 e i 40 anni diminuiranno di 300mila unità l’anno. Nel 2020 saranno oltre 6 milioni in meno rispetto a oggi.
Significativo in quest’ottica il dato sull’età media dell’immigrazione in Italia, concentrata per il 62% nella fascia d’età tra i 25 e i 49 anni. Nella stessa fascia d’età si colloca solo il 36% degli italiani.
Uno scenario del genere traccia un’unica strada per il mantenimento degli attuali livelli di benessere del nostro Paese: governo e integrazione dei flussi migratori. Né si può riporre troppa fiducia in politiche tese a favorire la fecondità degli italiani, politiche che potrebbero solo rallentare il declino della popolazione giovane in età lavorativa.
Secondo la Caritas i lavoratori immigrati in Italia sono oggi 840mila, pari al 3,6% della forza lavoro complessiva. Il lavoro degli immigrati ha consentito nell’ultimo decennio la sopravvivenza, o ha rivitalizzato, interi settori produttivi. Tra gli esempi più evidenti, la pesca a Mazara del Vallo, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio. Nell’insieme, il lavoro immigrato svolge oggi una funzione più complementare che concorrenziale rispetto a quello svolto dai cittadini italiani.

Una delle penalizzazioni più forti per le nostre imprese nasce oggi dalla politica delle quote, interpretata in senso restrittivo e poco funzionale agli interessi del sistema-Italia. Basti pensare che, a fronte dell’ingresso di una quota di 20.500 lavoratori non comunitari autorizzata per il 2002, il fabbisogno di manodopera immigrata per il solo Veneto ha toccato le 20 mila unità. Secondo uno studio curato da Unioncamere, nel 2001 il 20,9% della domanda di lavoro nel nostro Paese si è rivolto a lavoratori immigrati: su un fabbisogno occupazionale stimato dalle imprese italiane in 713 mila unità, quasi 150 mila hanno riguardato lavoratori extracomunitari.

L’impresa è divenuta negli ultimi anni, in Italia come in tutti i Paesi avanzati, luogo e modello di integrazione sociale. Ciò vale ancor di più per i Musulmani giunti in Italia, che - come dimostrano i dati della ricerca - sono persone prevalentemente in età lavorativa. La coesistenza e la collaborazione tra razze e religioni diverse “tra le mura della fabbrica” è il volano migliore per l’integrazione nella società. Eppure finora le nostre aziende non hanno saputo rivendicare e comunicare a sufficienza la loro capacità di essere punta avanzata della società, laboratorio del futuro.
L’inserimento della manodopera immigrata in azienda è sicuramente più agevole che nella società. In ambito produttivo le differenze culturali o quelle religiose non sono barriere insormontabili. Sempre più spesso, le imprese individuano e applicano soluzioni organizzative flessibili, che tengano conto sia degli interessi dei lavoratori, che delle aziende. Molti imprenditori, spesso giovani, si rendono conto delle necessità particolari dei lavoratori musulmani, e concedono spazi idonei alla preghiera e al rispetto delle tradizioni religiose.
L’azienda è oggi strumento d’integrazione anche in un’altra direzione. Non solo offre lavoro agli immigrati, ma sempre più spesso gli immigrati ne sono gli artefici. Il dato sugli immigrati che diventano imprenditori nel nostro Paese è una piacevole sorpresa: sono infatti più di 120mila le ditte individuali di cittadini extracomunitari alla fine del terzo trimestre 2002, in crescita di quasi il 20% rispetto al periodo analogo del 2001. Quasi uno straniero su dieci residenti è un imprenditore.

Se il mondo del lavoro appare una punta avanzata nella gestione dell’immigrazione, non altrettanto si può dire del ruolo svolto finora dalle istituzioni. Ed è su questo terreno che si misura il grado di discriminazione della comunità islamica presente in Italia, che pur essendo nettamente la prima per consistenza numerica sconta difficoltà maggiori rispetto alle altre, soprattutto dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001.
Non poter destinare l’8 per mille dell’IRPEF alla propria comunità, a differenza dei gruppi che hanno firmato un’intesa con lo Stato italiano, non poter dedurre le donazioni alla comunità musulmana dalle proprie tasse, non poter avere insegnanti di religione musulmana nelle scuole pubbliche: sono forme di discriminazione che minano dalle fondamenta la possibilità dei musulmani di integrarsi in Italia, di sentirsi parte della nostra comunità.
Appare evidente che solo un’intesa con lo Stato italiano può consentire una valida tutela dei diritti collettivi di questa minoranza. La tutela attuale, che può avere fondamento giuridico solo nella legge del ’29 sulle religioni di minoranza o nel diritto comune delle associazioni, è “generica”, senz’altro inadeguata alla consistenza e alle peculiarità della comunità islamica in Italia. E’ necessario lavorare perché la consapevolezza di questo passaggio fondamentale verso una piena integrazione giuridica dei musulmani si diffonda non solo all’interno della nostra classe politica, ma anche tra gli stessi gruppi di musulmani, che finora hanno fatto prevalere le diversità rispetto alle affinità, non riuscendo a darsi una rappresentanza unitaria.

In un ideale percorso di integrazione, dopo la tutela delle libertà fondamentali si deve giungere al riconoscimento dei diritti civili e politici. A Santa Margherita Ligure abbiamo immaginato che l’immigrato inserito nel nostro tessuto sociale ed economico possa diventare anche un protagonista responsabile della comunità in cui vive. Occorre rendere conveniente la legalità, allargando la forbice tra i diritti riconosciuti ai regolari e quelli concessi agli irregolari. In questo modo si può giungere alla costruzione di un vero e proprio patto di cittadinanza, magari sull’esempio francese del “contratto civico”. Un segnale importante può essere la concessione del diritto di voto agli immigrati nelle elezioni amministrative, quelle che toccano più da vicino gli interessi di chi vive in una comunità. Una partecipazione attiva alla vita politica del Paese non può che migliorare il senso di vicinanza culturale e di appartenenza degli immigrati nei nostri confronti.
Considero importanti, in questa direzione, iniziative sperimentali come l’istituzione di Consulte regionali o comunali per l’immigrazione, in grado di mettere in contatto diretto i rappresentanti degli immigrati e delle minoranze con le istituzioni locali.

“L’Islam in Italia” è una delle sfide di civiltà più difficili e affascinanti con cui il nostro Paese sia stato costretto a confrontarsi nella sua storia. Ma iniziative come quella di oggi dimostrano che un “nuovo Rinascimento” è possibile. Nel Cinquecento fu la riscoperta della centralità dell’uomo dopo l’oscurantismo medioevale; oggi può essere l’abbraccio tra etnie e religioni dopo secoli di guerra della ragione.


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