Le obiezioni di un cattolico al testamento biologico
LETTERE AL CORRIERE risponde Paolo Mieli
articolo - italia - - - Corriere della Sera - Paolo Mieli (Corriere della Sera) - Libertą Terapeutica
[07/07/03] Vedo che lei, caro Mieli, mi annovera tra i firmatari di un appello a favore della legalizzazione del «testamento biologico». Non è così e vorrei brevemente precisarle il perché. Sono convinto che ogni paziente abbia un assoluto diritto a rifiutare qualsiasi terapia gli venga proposta, anche al limite l'unica terapia in grado di salvargli la vita; ma una cosa è un rifiuto meditato, successivo a un approfondito colloquio con i medici ed eventualmente con i familiari (oltre che con se stessi); altra cosa è un rifiuto burocraticamente registrato su un pezzo di carta, redatto magari parecchi anni prima il verificarsi dell' evento morbosoe/o terminale, che la legge, se approvata, imporrebbe come vincolante anche in situazioni in cui potrebbe essere risolutivo un banalissimo intervento medico...
Francesco D' Agostino Roma
Caro D' Agostino, l'errore per cui ho inserito lei che è presidente del Comitato nazionale per la bioetica nell' elenco di quegli intellettuali e politici di destra e di sinistra, laici e cattolici (come lei), sostenitori dell' iniziativa a favore del «testamento di vita» è dovuto al fatto che avevo avuto notizia della sua presenza al convegno che si è tenuto (sotto il patrocinio del presidente del Senato Marcello Pera) per presentare e discutere quel disegno di legge. E dal momento che mi rendo conto della differenza che c' è tra accettare di discutere un testo come quello e sottoscriverlo, non ho alcuna difficoltà a porgerle le mie scuse. Ma veniamo al merito delle sue obiezioni: se venisse approvato il disegno di legge Ripamonti/Del Pennino, lei dice, qualora un anziano colpito da una polmonite (malattia grave e in sé mortale, ma certamente ben curabile) venisse ricoverato, in stato confusionale, in ospedale e gli si scoprisse in tasca un vecchio testamento biologico, redatto in termini molto generici (probabilmente nella prospettiva di patologie ben più gravi e temibili), i medici sarebbero obbligati a lasciarlo morire; di più, tale obbligo scatterebbe quando sarebbe sufficiente la somministrazione di un antibiotico per risolvere positivamente la situazione. E, lei aggiunge, gli esempi potrebbero essere molti di più: cosa fare se al pronto soccorso arrivasse in stato di incoscienza un giovane che si fosse imbottito di barbiturici per una qualsiasi delusione esistenziale e che, in precedenza, avesse legalmente chiesto di non essere curato? Lasciarlo agonizzare? «Come vede - mi ha scritto nella parte finale della lettera che sono stato costretto a tagliare per ragioni di spazio - non sto facendo grandi riflessioni bioetiche; mi limito a sottolineare che quando si vuole legiferare sulla vita e sulla morte è come se si camminasse sulla lama di un rasoio e che forse la legge, con la sua inevitabile genericità e (perché non dirlo?) grossolanità non è lo strumento migliore per gestire situazioni di carattere estremo». Condivido tutto tranne queste sue ultime parole e cioè che una legge - la quale tenga conto, per scioglierli, dei nodi da lei segnalati e di molti altri ancora - non possa essere un utile strumento per la sacrosanta battaglia contro l' accanimento terapeutico. Perché, mi domando, tale legge dovrebbe essere «inevitabilmente generica e grossolana»? Sono sicuro che, discutendone ancora e perfezionandola, riusciremo a farne una buona cosa. Anche grazie al contributo di persone come lei che accettano di partecipare a queste discussioni.
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