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Itinerarium Mentis in Mortem

Il cancro, l’accanimento terapeutico e il testamento biologico

Riceviamo questa lunga riflessione sulla malattia, l’accanimento terapeutico, la morte e il “testamento biologico”, argomento che è oggetto di una proposta di legge presentata dai senatori Antonio Del Pennino e Natale Ripamonti e che verrà illustrata domani, mercoledì 2 luglio, a Roma in un convegno promosso dall’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi. L’autore di questa pagina è un lettore del Foglio che chiede gli venga accordata la riservatezza essendo egli coinvolto personalmente, come si vedrà leggendo, nei temi di cui scrive.

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[01/07/03]

Perché un linfocita normale diventa neoplastico? E il farmaco che stiamo provando gli restituirà l’apoptosi? E la stadiazione sarà poi attendibile? E quell’altro fiore del male impazzito, che risale tenacemente sulla colonna dorsale, sarà sconfitto dalla chirurgia praticata? E una leucemia linfatica cronica per fortuna precocemente diagnosticata si risolverà in un biglietto alla lotteria di una lunga e travagliata ma santiddio alla fine remissione, oppure sarà solo la lenta anticamera di una metastasi mentale di fronte al male che se ne infischia e avanza, sospinto da nostra sorella morte corporale che infingarda continua nel suo indifferente mestiere? E tutti quelli che hai visto andarsene negli anni – quelli anzi che hai aiutato a farlo nella maniera che ti è sembrata più dignitosa mentre gli altri si dedicavano a quella che secondo molti sarebbe la pena di vivere – come diavolo avranno fatto poi ad abituarsi al mulinio nella testa ogni nanosecondo di ciascun giorno di tutte le settimane, senza intermittenza né crasi alcuna, di queste stesse eguali domande? Te lo eri chiesto tante volte, e diverse volte di fronte all’estremo di una vita che se ne andava ti era sembrato di averlo capito, vissuto, imparato. A tua buona memoria, per trarne nel caso e a tempo debito il miglior frutto dell’esperienza, che valesse anche per te. Ma ora non lo ricordi più, devi lottare per non perdere il filo dei tuoi pensieri nel soprassalto della sofferenza, dell’indignazione, della rabbia misantropa che non riesce proprio – e te ne fai una colpa, naturalmente – a ridursi alla passiva e amara accettazione dell’Ivan Il’ic di Tolstoj.
Pensare la morte. Pensare il cancro. Pensare il dolore e la sofferenza. “Appropriarsene come pensiero per respingerlo come paura”, hai letto da qualche parte ormai anni fa iscrivendoti al Leukemia Research Fund, sfogliando l’Overview del Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Quando ancora ti impratichivi dei questionari sulla Lost Pleasure of Life Scale per aiutare gli oncopsicologi del reparto nelle loro attività di sostegno ai malati in lotta, perché non credessero di essere terminali e monitorassero il grado e la pervasività del danno biologico da “timore di morte sopravveniente”, prima ancora che quello di “morte certa”. E per aiutare i congiunti dei caduti – li hai chiamati a lungo così, come militari in battaglia – a non cadere nella spirale tipica dell’oncolutto, in quel misto di apatia e ritiro emotivo in cui la morte risulta inaccettabile, alternato alla ricerca spasmodica della impossibile sopravvenienza dello scomparso. Quanto ti sembra tutto ridicolo, oggi, aver pensato di contribuire alla matrice di quei questionari, e i tuoi rapportini da volontario che hai doviziosamente compilato allo psicologo di sostegno inquadrando la moglie, il marito, il figlio o la madre del morto di turno nella categoria del lutto non risolto, di quello cronico, di quello ipertrofico o di quello ritardato. Tutto così povero di senso e avaro di lezioni, ora che la cosa riguarda te.
“Pensare la morte, appropriarsene come pensiero per respingerlo come paura”, dunque. Perché chi pensa è attivo, la morte non mi coglierà pronto a piombare nel nulla prima del tempo. C’è chi è graziato di lunghe fasi di estraniazione da sé indotte da farmaco, c’è chi riesce a difendere la lucidità quasi fino all’estremo anelito. In verità, pochi. E lo sai benissimo. Ma ti è essenziale illuderti che per te così debba essere, che ti ci impegnerai con tutte le tue forze, a qualunque costo. E per primo scopri naturalmente che sei assai poco disposto, nella tua convinzione estrema, a consegnare ad altri che te stesso un qualunque ruolo in questo “pensare la morte”, proprio tu che hai trascorso notti a persuadere altri che invece un aiuto potevano e dovevano farselo dare, magari solo per leggere insieme libri o sentire musica.

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“Pensare la morte”, nell’ablazione generalizzata che di essa si è fatta nella modernità, è cosa che abitualmente riguarda purtroppo solo chi ne è toccato. Ma non è una legge, non vale per tutti, c’è chi non la pensa così. Per questo, il convegno che si svolge mercoledì in via della Dogana vecchia a Roma leva una voce che parla a nome di molti che tacciono, arrovellandosi su ciò che considerano la propria condanna esclusiva. E’ un convegno organizzato dall’associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi, vi si presenta un disegno di legge presentato dai senatori Antonio Del Pennino e Natale Ripamonti. E’ un’iniziativa sostenuta da numerosi intellettuali, scienziati, medici, ricercatori e associazioni di famiglie. Chiede l’istituzione nel nostro ordinamento del “testamento biologico”, attraverso il quale ciascun cittadino possa disporre del diritto a rifiutare accanimento terapeutico. So bene che il tema appare ai più delicato, lambisce la frontiera etica del diritto alla vita e alla morte, divide inevitabilmente plotoni di accalorati polemisti sui temi di bioetica. Ma lasciatevi spiegare perché è una buona cosa, che non richiama né sfiora il diritto al suicidio (capitolo scivolosissimo in ogni caso da trattare a parte), che non è Faust né una lettura nietzschiana del Deuteronomio (30, 19), laddove sta scritto “chiamo testimoni verso di voi oggi il cielo e la terra: la vita e la morte ho posto davanti a te, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita”.

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Di “itinerarium mentis in mortem”, da decenni ciascuno ha il suo. Viviamo fuori da ogni canonizzazione religioso-filosofica-ermeneutica. Echi e richiami giudaico-cristiani ibridano fantasmi di persistenze di pensiero individuali a descrivere l’irriducibile spaesamento mediamente sofferto dall’Io contemporaneo. Oggi, tanto l’affollamento che la desertificazione del pantheon funebre della psicologia dei morenti, fenomeni che entrambi coabitano solo apparentemente in contrasto, sono una scoperta solo per chi non abbia pratica coi luoghi del trapasso. Rare le eccezioni, che almeno mi consti.
Qualche anno fa rileggevo l’Odissea a un malato terminale. Voleva risentire le pagine che gli ricordavano gli anni del liceo. Quando arrivammo a Calipso, figlia di dei, che invidia Odisseo perché mortale, perché solo nel suo orizzonte concluso le scelte assumono maggior rilievo, il pianto dell’ex liceale interruppe la lettura. La vecchiaia scippata dalla morte quasi a tutti i condannati non può apparire come un male che almeno si evita. Né risulta comprensibile Swift, che nei suoi “Viaggi di Gulliver” compiange i bambini che di quando in quando nascevano nel paese di Lugnaggian, predestinati da un cerchio rosso in fronte a non morire mai ma a incanutire sempre più indeboliti e colmi di risentimento per la sorte avversa.
Al contrario, patristica e filosofia classica sono stati entrambe di aiuto. Più sugli altri ieri che su me stesso oggi, lo ammetto. Ma hanno accumulato in magazzino strumenti che si rivelano di straordinaria utilità nell’affrontare gli interrogativi al centro del convegno di mercoledì.
Prendete per esempio il “De bono mortis” di Aurelio Ambrogio da Treviri, sì insomma il sant’Ambrogio meneghino. Non spande solo rassicurante dottrina per il credente intorno al fatto che la morte non rappresenta nulla di male per l’anima, al contrario. L’ex magistrato imperiale sapeva bene di filosofia, talché quando argomenta addentrandovisi lancia cime che arrivano fino a noi. Giacché la Verità è l’Essere conosciuto come ciò che non può non essere, mentre la Necessità è l’Essere non conosciuto come tale, bensì conosciuto come Divenire, ovvero quel che può essere e non essere, l’uomo che conosce nella Verità oltrepassa il suo essere nella necessità, e realizza in sé l’Essere, mentre l’uomo che conosce nella Necessità che prende a essere nel Divenire, resta prigioniero dell’ignoranza e del Non-essere. Troppe maiuscole, dite? Beh, la morte come trapasso tra essere e non essere non è esattamente categoria sulla quale la filosofia occidentale abbia economizzato, di maiuscole. L’importante è non farsene intimidire. Giacché il “conoscere nella Verità”, come chiede Ambrogio, ciò che per i “brotói” (non a caso in greco la radice di questa parola per uomini significa “mortali”) rappresenta la soglia tra restare “pantóporoi”, vivi e perché ricchi di strade da percorrere innanzi a sé, e l’“aporia” della morte che tutte le strade azzera, conoscere e definire questa soglia, la soglia che individua e ipostatizza la morte, a occuparsene da vicino risulta affare più complesso e sfuggente di quel che sembri a chi ne guarda di lontano.
L’ha scritto meritoriamente anche Paolo Mieli, domenica nella sua rubrica sul Corriere della Sera. Ha aggiunto la propria voce a quella di coloro che si battono perché al cittadino si riconosca il diritto di firmare una dichiarazione di volontà anticipata, per i casi in cui volesse e non potesse opporsi all’accanimento terapeutico per sopravvenuta incapacità di intendere e di volere. Una volontà alla quale i medici dovrebbero attenersi quand’anche dalla mancata attuazione di trattamenti dovesse risultare la cessazione delle funzioni vitali. Con tanto di richiamo al codice di deontologia medica, che all’articolo 34 prescrive che chi pratica la medicina “deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona”. “Il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente”. E c’è di più. C’è di più del solo caso di accanimento terapeutico. A ben vedere, c’è molto di più.

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“Pensare la morte”. Sono finiti i bei tempi in cui un grande giurista europeo del XIX secolo come Friedrich Carl von Savigny poteva a buon diritto scrivere che “la morte, come limite della capacità giuridica naturale, è un evento naturale così semplice che non è necessaria una determinazione più esatta dei suoi elementi”. I dibattiti di mezza Europa, in materie come il consenso all’espianto di organi, hanno negli anni scorsi portato anche nelle aule parlamentari le inestricabili contraddizioni di una materia tanto apparentemente autoevidente. Sono insorte difficoltà epistemologiche, a definire la morte.
L’antico criterio identificava la morte biologica nella scomparsa irreversibile dei segni vitali, respirazione e battito cardiaco, scomparsa che in una decina di minuti conduce all’irreversibile distruzione delle cellule cerebrali. Naturalmente, il sistema circolatorio può essere riattivato meccanicamente e tramite farmaci, e dopo la distruzione del cervello diversi organi possono restare vitali (il polmone un’ora, il rene, mattacchione, anche due), oltre al fatto che dal punto di vista vegetativo biologico un gran numero di formazioni cellulari sopravvive per periodi ancora più lunghi. Segnali biologici che al medico non interessavano, convinto seguace della teoria secondo cui i caratteri essenziali dell’essere vivente siano la compiutezza, l’integrazione e l’identità, che prescinde dalla mera sopravvenienza delle parti. Morte significava dunque perdita piena e irreversibile di tutte le funzioni per poter integrare ed esercitare le funzioni dell’organismo in quanto unità identitaria.
Il problema ha iniziato a insorgere inevitabilmente con l’approfondimento delle neuroscienze. Al posto della vecchia morte clinica, la soglia che ha preso a essere di riferimento, in corsia come nelle aule parlamentari, è quella di morte cerebrale. E la morte cerebrale, da mera constazione effettuale, diviene inevitabilmente convenzione normativa. Lo fu sin dall’inizio, da quando la morte cerebrale venne convenzionalmente definita e sanzionata, per così dire, nel Report dell’“Ad hoc Committee of Harvard Medical School to examine the Definition of Brain Death”. Era il 1968, poco dopo il primo trapianto di cuore.
Lasciamo da un canto chi eccepisce alla morte cerebrale, sostenendo che ciò che vale nelle prime fasi della vita umana deve valere anche nelle ultime, e se dunque il cervello non è il primo portatore della vita umana in quanto esso si forma solo settimane dopo l’organismo già formato, allora esso non può essere assunto come certificatore biologico della vita. E’ accaduto per esempio nel dibattito tedesco nel 1995 sulla legge per il trapianto di organi, e l’eccezione fu mossa da fior di titolari di cattedra, non da beghine della Cdu-Csu, come vollero allora semplificazioni giornalistiche che su questi temi sarebbero da punire con la gogna. Lasciamolo da un canto ma non per questo fingiamo che obiezioni simili non vi siano.
Prendiamo invece la definizione per quello che promette e non mantiene. In che cosa consiste, la morte cerebrale? E’ la morte paleoencefalica? E’ la morte corticale o neo-corticale, che può benissimo avvenire con un paleoencefalo funzionante? E’ la morte cerebrale totale, con il crollo delle funzioni sia neocorticali che del cerebrum intero? Non è così raro: politraumatizzati possono subire emorragie intense con un crollo del paleoencefalo e il resto che funziona, anencefalici talora dichiarati morti a causa del crollo delle funzioni neocorticali possono possedere paleoencefali funzionanti. Nella letteratura specialistica, così tetramente affascinante per chi frequenta i padiglioni dei malati terminali e tenta di “pensare la morte”, esiste un’ampia casistica che identifica i diversi effetti delle diverse morti “funzionali”: la “morte cognitiva” collegata alla perdita irreversibile della coscienza superiore, la “deanimazione”, la “perdita biologica dell’organismo come tale” (il che non implica affatto la perdita di molte delle sue funzioni se sostenute per via meccanica e terapeutica, appunto), e via proseguendo.
Da quel che si legge nelle corsie terminali – potenza di Internet, anche se i medici generalmente allargano le braccia e negano con non troppo rincuoranti “ma che andate a pensare!” – nella realtà dei fatti l’accertamento del danno neocorticale, cioè delle funzioni di coscienza, è assai meno perspicuo del danno paleoencefalico. E fioriscono dunque le casistiche di diagnosi di morte cerebrale sbagliata, come il dichiarato morto a New York pronto all’espianto d’organi che poi venne risparmiato per via di un deceduto più giovane, e che improvvisamente si risvegliò, conversando per alcuni giorni fino alla sua morte reale. Caso appunto riportato anche nel citato dibattito parlamentare tedesco. Come si moltiplicano i casi di morti cerebrali il cui metabolismo viene mantenuto artificialmente in funzione, in una terra di nessuno in cui medici e congiunti decidono talora in base a criteri alieni da disposizioni di legge e certezze epistemologiche.
Hans Jonas ebbe a criticare pesantemente la definizione harvardiana di morte cerebrale e le aporie della sua incerta applicazione. Morte medica e morte ontogenetica continuano a coesistere come entità differenziate, incrociano le loro lame nelle teste cupe e silenziose di migliaia e migliaia di malati terminali. Che Pio XII nel 1957 abbia detto che “non c’è obbligo morale di usare mezzi straordinari nel caso di pazienti sofferenti gravemente o privi di sensi ad allungare la loro vita”, pone un principio ma ciò è altra cosa dal prescrivere in quali condizioni concrete vada poi applicato e in quali no.

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Per questo il convegno di mercoledì è importante. La “dichiarazione di volontà anticipata” di cui propone l’introduzione nel nostro ordinamento non risponde solo a un criterio di civiltà giuridica. Per chi si arrischia nelle panie del “pensare la morte”, essa risulta necessaria anche per un fine diverso dal solo caso dell’accanimento terapeutico e dell’espianto d’organi. La nostra fiducia nei medici non si spinge al lasciare a coloro che tra loro si occupano di trapianti di decidere della soglia di morte. E la filosofia si è ridotta oggi incapace di affrontare ad armi pari una scienza medica che nella modernità l’ha respinta nel suo angolino, finalmente inoffensivo, dopo secoli di prepotenza di un pensiero a-fattuale.

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“Pensare la morte”. Negli anni, e nel graduale cambio di veste da volontario a paziente, mi è capitato più di una volta di animare falsarighe di impretenziosi abbozzi di corso, in materia. Di proporre a richiesta di pazienti interessati scalette di lettura, spunti di confronto, temi di discussione. A due, talora quattro, e una volta sino a sei voci diverse. In qualche occasione, anche con medici coinvolti. Pensare la morte è niente di meno che porsi il problema dell’essere, anzi dell’Essere per tornare alle maiuscole di tanta cattiva ma tenace metafisica. Sul campo ho imparato, e l’ho considerato un grazioso sintomo di riconciliazione con lo spirito del tempo, che i cori di Sofocle ed Euripide battono dieci a zero gli antropo-psico-sociologismi di Freud nelle “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”. Che il Kierkegaard di “Accanto a una tomba” suona oggi falso come un romanzo rosa della collana Harmony. Che il coro di morti compunti del Ruysch di Leopardi – “che fu quel punto acerbo, che di vita ebbe nome?” – è da evitare come la peste rispetto al Baudelaire ne “La servante au grande coeur”, in cui almeno anche i morti sono capaci di sentire grandi dolori. “L’inno alla morte” di Filippo Tommaso Marinetti è fanfara di carta velleitaria, vista la penuria di combattenti pronti a dichiararsi con fede alla “dolce amante dal corpo d’anguilla, sotto una faccia incandescente d’acciaio”. Emmanuel Lévinas – al quale Toni Negri nel suo recente “Ritorno” nega sdegnosamente la palma di degno filosofo al confronto di Deleuze, Foucalt e Guattarì – invece lui sì, nel suo “Totalità e infinito” riesce a parlare del “carattere imprevedibile della morte che non si situa in alcun orizzonte”, in una maniera che a orecchie gravate dal male non induce a smorfie di fronte a falsi manierismi. Talvolta è capitato di doversi piegare alle mode del tempo, come con “L’immortale” di Jorge Luís Borges, assai più conosciuto di quanto immaginassi. E non è mancato nemmeno chi una volta ha tirato fuori il “Faust” di Fernando Pessoa, che non conoscevo e che dispiacque, per la riproposizione dell’accettazione epica della morte nell’ultimo atto. Di epos, nella morte dei condannati dall’arretratezza persistente della medicina, davvero non si sa dove trovarne.
Un certo qual interesse, che nelle date condizioni equivale al massimo del successo, l’ho riscosso talvolta riproponendo azzardati accostamenti di pillole occidentali. Protagora, per esempio. Ricordate, nel Teeteto di Platone, la sua aurea “Di tutte le cose misura è l’uomo, di quelle che sono, del fatto che sono, di quelle che non sono, del fatto che non sono”. Milioni di pagine sono state scritte, è uno dei fondamenti del rapporto tra ente ed essere, fisica e metafisica, esperienza e limiti della cognizione, soggetto e oggetto. Passando per l’Io cogitans di Descartes alla crisi moderna di ogni possibile “veritas come adequaetio intellectus et rei”, è una linea su cui si può agevolmente ricostruire l’intera evoluzione della filosofia occidentale. Ma pensate solo che cosa ancor oggi evochi, quel “pánton kremáton métron estìn àntropos”, a chi ansiosamente cerchi una misura all’attuale incerta definizione di che cosa identifichi la soglia di morte. Conditelo poi, a chiudere neanche troppo metaforicamente il cerchio della metafisica e dell’ontologia occidentale, con Martin Heidegger che tanto simpatico non ci sta, ma la cui definizione dell’essere umano come “Sein zum Tode”, un essere-per-la-morte, in effetti altroché se parla a quelle orecchie interessate che vi prego di immaginare. Aggiungete, per insaporire, la lettura della sua ultima lezione del ciclo che tenne nel secondo trimestre del 1940 a Friburgo, dal titolo “L’essere come vuoto e come ricchezza”, che contiene una delle più riuscite esemplificazioni della ricchezza semantica e delle relative contraddizioni che il verbo essere ha nel nostro uso corrente, comprensibile lo giuro e persino quasi esilarante anche per chi di filosofia ne abbia masticato nulla, ed ecco che si arriva per vie traverse e imperscrutabili all’ultima conclusione per la quale il convegno di mercoledì è proprio tanto importante.

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Ammettiamolo. Per molti di coloro ai quali pensare la morte è diventata una solerte per quanto ancora ostica abitudine, la “dichiarazione di volontà anticipata” dovrebbe essere aperta a un’estrema ma prioritaria possibilità. Non solo dichiarare le condizioni alle quali sottrarsi imperativamente all’accanimento terapeutico, e consentire all’espianto. Ma anche per indicare, tra le tante e diverse definizioni di morte oggi richiamate e possibili, quella che ciascuno intende vada a sé nel caso applicata. “Di tutte le cose misura è l’uomo”, la rivincita di Protagora insomma su Socrate che lo sfotteva, e su ogni idealismo platonico in cui a decidere è un Altro con la “A” maiuscola. Col pieno rispetto dei credenti e del problema che ciò porrebbe loro. Si può escludere davvero che quel “la vita e la morte ho posto davanti a te, scegli dunque la vita” del Deuteronomio, non voglia anche comprendere l’indicazione della soglia di vita che identifica la pienezza di sé? No, io non lo penso davvero. In tanti, qui dentro da dove scrivo, non lo pensiamo. Senza compiere alcuna hybris di umanismo materialista. Anzi, con infinito rispetto, e qualche speranza che dopo le morti vi siano individui e comunità capaci ancora dello shib’ah, la settimana di cordoglio comune dopo un lutto, del se’udat havra’ah, il pasto in cui gli amici si stringono intorno ai congiunti dopo il funerale, e del qaddish, la preghiera recitata per un anno dopo la scomparsa, che costituiscono i fondamenti di cui tutti siamo figli ed eredi, di quella civiltà giudaico-cristiana del ricordo degli scomparsi.
Ascoltate anche la nostra voce, mercoledì, che parla a nome di tanti nel silenzio.


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