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Il diritto di vivere bene per morire bene

Un progetto di legge per il testamento biologico e la libertà di cura: domani un convegno

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[01/07/03]

«L’atteggiamento davanti alla morte è stato trasformato non solo dall’alienazione del morente, ma dalla variabilità della durata della morte; questa ha perduto la bella regolarità di una volta: le poche ore che separavano i primi avvertimenti dall’estremo addio. I progressi della medicina continuano a prolungarla. In certi limiti, si può abbreviarla o allungarla: dipende dalla volontà del medico, dall’attrezzatura dell’ospedale, dalla ricchezza della famiglia o dello Stato». Così scriveva lo storico francese Philippe Ariès nel suo bellissimo libro Storia della morte in occidente. Era il 1975 e Ariès sentì il bisogno di raccogliere in un testo compiuto le riflessioni che andava facendo già da tempo su come è cambiato l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte nel corso del tempo. Lo stesso autore, nella prefazione, raccontava che si era deciso a pubblicare il testo perché questo soggetto «agita ormai l’opinione pubblica, invade libri e periodici, trasmissioni radiofoniche e televisive». I capitoli principali del libro sono la trascrizione di quattro conferenze che vennero chieste allo storico francese da un collega della Johns Hopkins University, ed erano quindi pensate per un pubblico americano. In effetti, proprio negli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si cominciavano ad approfondire le problematiche relative all’aborto, al diritto a rifiutare le cure e anche al diritto a morire. La società americana, sotto la spinta della cronaca, si cominciava ad accorgere che un modo naturale di morire non esisteva più, che i progressi della medicina rendevano labile il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico e che si imponeva un ripensamento etico e giuridico: il cittadino poteva scegliere come farsi curare? Poteva decidere se il suo mantenimento in vita forzato era un male piuttosto che un bene? E cosa sarebbe accaduto se, proprio nel momento critico, quando si richiedeva la sua opinione sull’opportunità di protrarre la vita anche a dispetto della sua qualità, il paziente non fosse stato in grado di decidere? Dopo qualche tempo arrivarono i primi pronunciamenti della giurisprudenza relativi al diritto a morire con dignità ed al ruolo da attribuire alla volontà del soggetto non più capace di intendere e di volere a causa della malattia. Il primo caso famoso, coincidenza vuole, risale proprio al 1975: è quello di Ann Quinlan, una ragazza ricoverata in coma a seguito di un incidente stradale. La Corte del New Jersey, alla quale i genitori si rivolsero a seguito del rifiuto dei medici di spegnere gli apparecchi che la tenevano in vita artificialmente, stabilì che il diritto al rifiuto dei trattamenti terapeutici rientra nel più ampio diritto alla privacy, diritto che esclude l’intromissione dello stato nelle decisioni del singolo e che, essendo Ann Quinlan incapace, si doveva consentire ai genitori di esercitare tale diritto secondo le volontà della stessa Quinlan. L’anno successivo, in California fu adottato il Natural death act nel quale viene riconosciuta la validità del living will, una dichiarazione nella quale la persona dà le indicazioni da seguire nelle ipotesi in cui, a causa di una grave malattia, generalmente terminale, non sia capace di manifestare la propria volontà circa il trattamento a cui essere sottoposto e delle advanced directives, ovvero le dichiarazioni sulle cure verso le quali si presta il consenso o il rifiuto; queste dichiarazioni vengono rivolte al medico preventivamente, in considerazione dell’eventualità di non essere più un giorno in grado di assumere decisioni relative alla propria salute. A distanza di quasi trent’anni da quella che fu la prima normativa degli Stati Uniti su questo tema (divenuta poi legge federale nel ’91), in Italia ancora siamo fermi alle discussioni. Per la verità, già da anni circolano i cosiddetti «testamenti biologici» o «testamenti di vita». Nel 990 la Consulta di bioetica di Milano, un’associazione di cittadini impegnata a promuovere un dibattito laico sui temi della bioetica, presentò il primo: la Carta di autodeterminazione o Biocard. Si trattava di una specie del living will americano, un documento in cui una persona, nel pieno possesso delle sue capacità, dava disposizioni ai futuri curanti su quali terapie intraprendere e fino a che punto spingere gli interventi medici nel caso in cui, nel momento critico, fosse venuta meno la possibilità di esprimere le proprie scelte. Ancora oggi la Biocard si può sottoscrivere (il modulo prestampato si trova al sito www.consultadibioetica.org) ma il problema è che non ha nessun valore legale. In sostanza, come ha spiegato il bioeticista Maurizio Mori, dipende dal medico se riconoscerla o no. Purtroppo, se il medico che si attiene alle volontà contenute nel testamento viene denunciato, rischia pene durissime per atti medici che la legge non consente. Da più parti, dunque, si è giunti alla conclusione che serve una legge nuova. È in questo quadro che «A Buon Diritto. Associazione per le libertà» e l’osservatorio sulla bioetica della Fondazione Luigi Einaudi hanno organizzato un convegno su accanimento terapeutico, testamento biologico e libertà di cura. Il titolo del convegno è Di che vita morire e si svolgerà al Senato della Repubblica domani a partire dalle ore 17. Il dibattito, che vedrà presenti il Presidente del senato Marcello Pera, il vice presidente della Convenzione europea Giuliano Amato, il presidente della consulta di Milano Valerio Pocar, e il presidente del Comitato Nazionale di disegno di legge presentato 15 giorni fa dai senatori Ripamonti (Gruppo misto-Pri) e Del Pennino (Verdi-Ulivo). In realtà il disegno ricalca, con qualche aggiunta, quello presentato nel 2000 a firma, tra gli altri, di Luigi Manconi. E Manconi, presidente dell’associazione «A buon diritto», spiega perché è importante intraprendere questa battaglia: «Anche il ministro della sanità, Girolamo Sirchia, ha sostenuto l’opportunità di una carta di questo genere e ha dato mandato al Comitato di Bioetica di preparare una dichiarazione sul testamento biologico, ma le cose ristagnano. Per questo è importante una forte pressione dell’opinione pubblica». Del resto, esistono fior di documenti ufficiali che ribadiscono l’importanza del consenso alla cura. Uno di questi è la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, nota come la Convenzione di Oviedo, approvata dal Consiglio d’Europa nel 1997: vi si afferma che qualsiasi intervento medico effettuato senza il consenso della persona deve ritenersi illecito. Anche il codice di deontologia medica, nell’ultima versione del 1998 afferma che il medico «deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona». Infine, all’inizio di quest’anno, ci ricorda Manconi «anche la Chiesa cattolica prende posizione contro l’accanimento terapeutico e lo fa attraverso la Congregazione della Dottrina della fede che, in un documento firmato dal cardinale Ratzinger, afferma che in alcuni casi non solo è possibile, ma è moralmente legittimo interrompere il trattamento». Nonostante tutto, la prassi è ancora quella di sempre. «Per questo ci vuole un fondamento giuridico», conclude Manconi. Che poi la legge cambi le cose, per la verità, non è detto. Prova ne sia la storia della legge sulla lotta al dolore approvata nel gennaio 2001. Avrebbe dovuto facilitare l’uso dei farmaci derivati dell’oppio, ma ancora oggi l’Italia si trova agli ultimi posti nella classifica dei paesi che utilizzano le terapie contro la sofferenza. Solo per fare un esempio, in un ospedale francese un malato terminale riceve dosi di morfina otto volte superiori a quelle che riceve un paziente italiano. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Anche perché le cose sono collegate tra loro, come spiega Valerio Pocar: «Le direttive anticipate (o testamento biologico), l’eutanasia (…), le cure palliative (…), sono tre questioni tra loro collegate, nel senso che tutte e tre hanno a che fare coi problemi di fine vita e rappresentano mezzi per la realizzazione effettiva del fondamentale diritto di ogni individuo a una morte dignitosa» (Dignità del morire, Guerini studio editore, 2000). Chissà se, aprendo una porta, non se ne socchiudano altre… Francis Bacon, «Study from the human body», 1949

L’Associazione «A Buon Diritto» ha redatto un manifesto per la sovranità su di sé e sul proprio corpo, proponendo di istituire una biocard che, in pratica, è un testamento per la vita. Esso consiste in una dichiarazione anticipata di volontà: un atto formale, che consenta a ciascuno, finché si trova nel possesso delle sue facoltà mentali, di dare disposizioni riguardo ai futuri trattamenti sanitari per il tempo nel quale tali facoltà fossero gravemente ridotte o annullate; disposizioni vincolanti per gli operatori sanitari e, in generale, per ogni soggetto che si trovi implicato nelle scelte mediche riguardanti la persona e che non siano in contrasto con la deontologia professionale del medico e con le realistiche previsioni di cura. Un atto che può essere revocato dal firmatario in qualsiasi momento e che può prevedere l’indicazione di una persona di fiducia, alla quale affidare scelte che l’interessato non è più in grado di assumere. Al manifesto hanno aderito, tra i molti: Giuliano Amato, Fulvia Bandoli, Alessandro Bergonzoni, Giovanni Berlinguer, Pier Luigi Bersani, Lucio Caracciolo, Franco Cardini, Sergio Chiamparino, Guglielmo Epifani, Renato Farina, Fabio Fazio, Ernesto Galli della Loggia, Margherita Hack, Giovanni Jervis, Rita Levi Montalcini, Amos Luzzatto, Massimo Moratti, Paolo Rossi, Umberto Veronesi, Tullia Zevi.


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