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Malati terminali, il diritto a una morte dignitosa

lettera a Corrado Augias

articolo - italia - - - La Repubblica - Paola Torchiani - Libertą Terapeutica

[18/12/02]

CARO Augias, a febbraio scorso al mio papà è stato diagnosticato un tumore al cervello. Verso la fine dello stesso mese è stato ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma per un intervento che avrebbe potuto, se riuscito, allungargli la vita di qualche mese.
L'attesa è stata lunga. Le sue condizioni peggioravano, non riusciva più a stare in piedi, ad andare in bagno, ma rimaneva perfettamente lucido. Durante questo periodo è stato in riserva per tre volte. Essere in riserva significa non sapere se il giorno dopo sarai operato, pertanto sei sottoposto ai preliminari, compreso digiuno e divieto di bere fin dalla sera prima. Nel 98 per cento dei casi le riserve non saranno operate, però la routine impone questo massacro su persone già molto provate. Il 21 marzo c'è stata l'operazione, durata quasi dieci ore durante le quali siamo stati in angosciosa attesa davanti alla sala operatoria, senza un cane che si degnasse di dirci qualcosa.
Finalmente verso le cinque del pomeriggio la porta s'è aperta. Sono usciti quattro infermieri; correndo spingevano un letto sul quale giaceva una povera creatura irriconoscibile, attaccata a una serie incredibile di macchinari. Era il mio papà. Abbiamo cominciato a corrergli dietro. Per arrivare alla rianimazione si è dovuto attraversare (sempre di corsa!) un intero reparto e il pronto soccorso. Oltre che precaria dal punto di vista igienico, in una corsa così non si considera la dignità di chi non può difendersi dall'essere oggetto di curiosità e ribrezzo. Ho potuto parlare con il famoso chirurgo che l'ha operato solo il lunedì successivo (dopo una mattinata di attesa), quattro giorni dopo l'operazione. Ma la deontologia (e l'umanità) non impongono al medico di parlare con i parenti dopo l'intervento? Papà è uscito dalla rianimazione dopo due settimane. La tracheotomia gli impediva di parlare, era immobile, pieno di flebo, con piaghe, gonfiori, cateteri. Una pena infinita. L'unica mano che riusciva a muovere gli era stata legata. Dicevano per sicurezza. Con lui ho scambiato brevi sguardi muti che si sono scolpiti per sempre nel mio cuore. Né gli infermieri né i medici hanno mai dimostrato alcun interesse umano verso di noi. Lo so che è sciocco chiedere ogni giorno se un povero malato terminale ha la febbre o la glicemia alta, ma per noi era l'unico modo per sentirlo ancora vivo.
Quando è morto, il 18 giugno, lo hanno messo in una stanzetta a parte. Nessuno mi ha rivolto la minima parola di conforto. Non sarebbero cambiate le cose, ma è in questi momenti che l'essere umano ha bisogno di sentirsi meno solo. Siamo stati cose, strumenti del loro lavoro, come la zappa per il contadino. Quando si rompe si butta via. La professionalità e la bravura sono importanti, ma a cosa servono se manca l'umanità a sostenerle? Non potrò mai dimenticare le cose terribili che ho visto in quel posto del quale fino ad allora non immaginavo neppure l'esistenza. Il dolore e l'incredibile rassegnazione con cui si accetta tutto, pur di uscirne.
Il mio papà non ce l'ha fatta, ma auguro a quelli che ora sono lì di superare questa battaglia con la dignità e il rispetto che ogni essere umano merita. Mi scusi lo sfogo. Spero di non averla annoiata.
Paola Torchiani
polline@email.it

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